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Il downtime di un hosting può influenzare il numero di vendite di un sito e-commerce?

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Cosa c’entrano tra loro downtime o tempo di inattività  di un sito e numero di vendite di un e-commerce? Molti esperti fanno riferimento, in più occasioni, all’importanza di un elevato uptime per un e-commerce, evidenziando come un tempi di downtime elevato possa influire, per un sito del genere, sui profitti – in modo spesso sostanziale. Ma le cose stanno veramente cosà¬?


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In realtà  no, a quanto pare, ma questo non vuol dire che l’uptime non sia importante lo stesso.

Premettiamo che l’uptime è il tempo in cui, solitamente in un anno e in media, un servizio generico rimane attivo e funzionante: in modo complementare il downtime è il tempo di disservizio annuale. Per rimanere in tema, faremo riferimento alla responsività  di un server di hosting che, nello specifico, ospiti un sito di e-commerce: in prima istanza vedremo di capire cosa non va nel modello proposto dall’articolo di riferimento, e poi proporremo un possibile modello valido alternativo.

L’idea di base è che un basso uptime (se preferite, un elevato downtime) influisca negativamente sul ROI (Return Of Investment) di un gruppo di e-commerce indipendenti: il problema è comprendere in che misura ciò possa avvenire. In breve, i dati dell’articolo di DynDNS sono “falsati” da qualche ordine di grandezza di troppo, anche se l’assunto di fondo rimane obiettivamente corretto.

Partiamo dall’inizio: per sostenere la propria tesi Ryan O’Hara utilizza un modello statistico (implicito) che, pur partendo da un assunto corretto, soffre di una grave “falla” di fondo. L’autore dell’articolo sostiene che il downtime di un campione di siti di e-commerce influenzi in negativo il numero di vendite: assunto certamente corretto, almeno se presentato in questa veste, dato che se non posso accedere al sito entro tot secondi rinuncerò a farlo, ed il sito avrà  smarrito un cliente potenziale. Si tratta evidentemente di un’enormità , sottolineata dal fatto che il post fa riferimento ad una vera e propria “prova” (proof). E invece…

A supporto della sua tesi O’Hara, autore di uno studio dettagliato in merito, riporta le seguenti statistiche su un campione di siti di e-commerce (su 500 totali), osservando che:

  1. ben 412 hanno rilevato una mediana di downtime di 840 minuti (presumibilmente annuali).
  2. In media, ognuno di questi siti ha sofferta un downtime medio di 3291 minuti nel 2010.
  3. Il downtime totale che è stato rilevato ammonta a 1,343,643 minuti totali, ovvero ben 2 anni e mezzo di downtime.

Ok, ma qualcosa non quadra, ho subito pensato dopo aver letto l’articolo (su suggerimento di kuroazan, che ringrazio): nel punto tre, tanto per cominciare, si considera il downtime come una quantità  omogenea, e quindi si ritiene lecito effettuare una semplice somma. Fin dalle elementari sappiamo che è impossibile sommare banane, kiwi e mele, quindi il punto tre semplicemente non ha senso.

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Inoltre la statistica insegna che, avendo a che fare con eventi indipendenti come il numero di visitatori casuali (random surfer) di N siti, è lecito semmai moltiplicare le rispettive probabilità  che essi capitino nel sito. Questo perchè il discorso, che riguarda sia la statistica che il calcolo delle probabilità , sottende che esiste un modello probabilistico di fondo, che ci dica: “mediamente un certo numero di visitatori mondiali arriva effettivamente nel sito X”. La questione viene invece clamorosamente dribblata da O’Hara, che sembra assumere una probabilità  costante (addirittura pari ad uno, ovvero certezza assoluta!) che tutti i visitatori potenziali del sito acquistino (peraltro il medesimo prodotto!). Come se non bastasse, si sta semplicisticamente ignorando il discorso legato alle scarse prestazioni del CTR, che insegna come solitamente solo l’1% dei visitatori tenda ad effettuare degli acquisti dopo aver visto un banner o una landing page.

Nella migliore delle ipotesi, quindi, la perdita stimata – per fare un esempio pratico anche se approssimata – da $800,099 si riduce a 8,000$ di perdite medie. Cifra anch’essa considerevole, chiaramente, visto che il tempo di uptime basso non va certo sottovalutato, ma di tre ordini di grandezza inferiore alla precedente! Quindi l’intero articolo è fallato da un sostanziale errore di fondo, che vanifica l’intero ragionamento: a questo punto, quindi, il fatto che i dati siano statisticamente inconsistenti (senza fonte), come notato da alcuni commenti all’articolo, diventa un problema addirittura secondario.

Ma allora l’intero approccio è da buttare? Secondo me no: nel senso, il downtime è importante da tenere alto soprattutto perchè è difficile che una persona compri di primo impatto su un qualsiasi sito. Di fatto, tornerà  spesso sul sito prima di fare qualsiasi cosa, e questo suggerisce come sia importante disporre di un servizio di hosting che sia adeguato allo scopo, e che sia soprattutto di qualità .

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