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La vera storia di Deep Blue, il computer che vinse a scacchi contro Gasparov

Fin dagli albori dell’informatica e delle intelligenze artificiali (primi anni 30), gli addetti ai lavori si sono occupati – con una attenzione ai limiti dell’ossessione, in alcuni casi – di comprendere i limiti di calcolo di questi dispositivi, mentre muovevano i primi passi le speculazioni filosofiche sul tema. I computer possono risolvere qualsiasi problema oppure no? Quali sono i limiti che dovranno affrontare? È opportuno che siano messi nelle condizioni di prolificare in modo indiscriminato, come imposto dalle visioni accelerate e tecno-capitaliste sulla falsariga di Elon Musk?

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Da sempre gli informatici hanno cercato di mettere a confronto le prestazioni di questi “cervelli artificiali” con le menti umane, e hanno sfruttato il gioco degli scacchi come un modello pratico per testare le capacità di calcolo di un computer. Gli scacchi sono un gioco complesso, nonchè una una raccolta di problemi impegnativi sia per l’uomo che per la macchina, a fronte di regole che sono – di per sè – piuttosto semplici da applicare e sfruttare.

Per chi non lo ricordasse, riassumiamo brevemente: gli scacchi sono un gioco strategico a due giocatori in cui l’obiettivo è bloccare il re avversario, ovvero minacciarlo strategicamente in modo che non possa sfuggire (scacco matto). Ogni giocatore controlla sedici pezzi in tutto: pedoni, torri, cavalli, alfieri, una regina e un re, ciascuno con movimenti specifici. La partita si svolge su una scacchiera di dimensione 8 per 8 e coinvolge regole come l’arrocco, la cattura “en passant” e la promozione dei pedoni. Nonostante la relativa semplicità di queste regole, gli scacchi offrono un numero enorme di combinazioni e strategie, rendendoli un campo ideale per l’intelligenza artificiale. Questo era già stato effettivamente dimostrato nel 1997, quando il supercomputer Deep Blue di IBM aveva sconfinto, dopo una lunga partita, il campione mondiale Garry Kasparov. Deep Blue utilizzava una potenza computazionale senza precedenti per analizzare milioni di mosse al secondo, dimostrando come il calcolo brute force, unito a un’accurata valutazione strategica, potesse competere con il pensiero umano in un gioco così complesso. L’11 maggio 1997, il computer IBM chiamato IBM® Deep Blue® ha battuto il campione mondiale di scacchi dopo una gara di sei partite: due vittorie per IBM, una per il campione e tre pareggi. La partita uomo contro macchina era durata diversi giorni e ricevette, alla lunga, un’enorme copertura mediatica in tutto il mondo.

Dietro la gara, tuttavia, c’era un’importante attività in ambito informatico, che ha fatto progredire la capacità dei computer di gestire i tipi di calcoli complessi necessari per aiutare a scoprire nuovi farmaci, di eseguire l’ampia modellazione necessaria per identificare le tendenze ed effettuare una accurata analisi del rischio.

La storia di Deep Blue

Gli informatici dell’IBM si erano interessati al calcolo degli scacchi fin dall’inizio degli anni ’50. Nel 1985, uno studente laureato alla Carnegie Mellon University, Feng-hsiung Hsu, assieme ad un collega di nome Murray Campbell, iniziarono a lavorare al suo progetto di tesi presso IBM Research: una macchina per giocare a scacchi che chiamò ChipTest.

Gasparov (all’epoca campione di scacchi trentaquattrenne) e il computer IBM si sono incontrati all’Equitable Center di New York, con tanto di telecamere puntata, stampa asserragliata e milioni di persone che aspettavano il risultato di quella sfiga. Non si sapeva esattamente con quanta probabilità Deep Blue potesse vincere, ma le certezze sul fatto che potesse farlo ebbero la meglio anche sui più pessimisti (fonte). Si sospettava che il computer potesse vincere, ma le abilità di Gasparov erano al tempo stesso fuori discussione. I tecnici della IBM dal canto loro sapevano che la loro macchina avrebbe potuto valutare / esplorare ben 200 milioni di possibili posizioni al secondo. Il grande maestro di scacchi aveva vinto la prima partita, Deep Blue la successiva e i due giocatori pareggiarono le tre partite successive. L’ultima partita venne, finalmente, vinta da Deep Blue.

Nel bel libro di Hannah Fry “Hello World” viene raccontata una caratteristica poco nota di quella partita: gli ingegneri della IBM non soltanto avevano progettato un algoritmo avanzato per vagliare le mosse, ma cercarono di “far sembrare” Deep Blue meno sicuro di quanto non fosse. Dopo aver finito di effettuare i calcoli sulla prossima mossa, il computer sfruttava infatti delle lunghe pause di durata casuale, fino ad alcuni minuti, in modo da cercare di “sfasare” l’avversario umano. Gasparov, infatti, pare fosse convinto che usando la sua strategia avrebbe indotto l’algoritmo a dover vagliare un numero di possibilità tali da non essere più sensato nelle proprie scelte, e queste lunghe pause in apparenza confermarono la sua convinzione. Di fatto, pero’, Deep Blue già aveva deciso cosa fare, ma si era limitato ad attendere un po’ e “far finta” di fare calcoli. Non il massimo dell’etica, vista oggi, ma di sicuro la strategia ebbe il suo peso.

Di Christina Xu - https://www.flickr.com/photos/crimsonninjagirl/4094812230/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=107641947
Il computer Deep Blue della IBM – Foto da Wikipedia – Di Christina Xu – https://www.flickr.com/photos/crimsonninjagirl/4094812230/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=107641947

Il risultato della partita ha fatto notizia in tutto il mondo e ha aiutato il grande pubblico a capire meglio l’informatica ad alte prestazioni. Nello specifico, Deep Blue lavorava su un’architettura parallela con 480 processori VLSI, mentre l’algoritmo venne scritto in linguaggio C. Questo risultato ha avuto un’eco mediatica enorme ma ha soprattutto permesso ai ricercatori di esplorare e comprendere meglio i limiti dell’elaborazione parallela. L’architettura utilizzata in Deep Blue è stata applicata in vari ambiti successivi: modellazione finanziaria, analisi dei trend di mercato, analisi dei database, chimica e farmacia. Alla fine, Deep Blue fu ritirato nello Smithsonian Museum di Washington, DC, ma IBM continuò a costruire nuovi tipi di computer paralleli sulla stessa falsariga come, ad esempio, IBM Blue Gene.

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