Amo la tecnologia e, come ormai dovreste sapere dalla lettura di questo blog, mi interessano da sempre i suoi risvolti più insoliti; del resto, il mio lavoro ha per buona parte a che fare con schermi di computer, tablet e tastiere. Chiaro che mi piaccia parecchio andare a cercare riferimenti tecnologici o hacker all’interno dell’arte in generale, a questo punto.
Pur amando il cinema in generale, del resto, vanto da sempre un rapporto conflittuale con le serie TV in generale: non voglio sembrare radicale in questo, ma per intenderci per me semplicemente si potrebbe fare a meno di realizzarle, se non per sparutissime eccezioni. Non amo la serialità degli horror (Venerdଠ13, Nightmare, e via dicendo), non amo la serialità in genere, sono stato in grado di guardare la sola puntata pilota di Breaking Bad e rimanerne soddisfatto senza chiedere altro (lo so, sembra una follia). Non tanto perchè il risultato finale di questi lavori, in genere, non sia visivamente pregevole: piuttosto per il fatto che creano una sorta di dipendenza nei confronti dello schermo e della narrazione stessa, prolungando storie fino allo sfinimento e minando cosà¬, dal mio punto di vista, la stessa scorrevolezza delle storie. La cosa non mi piace e difficilmente potrà piacermi in futuro.
Partendo da questi presupposti, potete immaginare il mio stato d’animo nel sapere che avrebbero realizzato una serie televisiva ad argomento tecnologico: il cortocircuito era bello pronto, 2+2 non avrebbe mai potuto fare improvvisamente qualcosa di diverso da 4, per cui non credevo che avrei mai iniziato a seguire Black Mirror.
Io, l’hater della serialità per eccellenza.
Proprio io, quello che ama il cyberpunk, e proprio per questo rifugge da sempre la dipendenza dalla tecnologia e dalle storie che continuano all’infinito (che bel paradosso, l’ingegneria informatica, a volte).
Tutto questo insieme di auto-convincenti pregiudizi, insomma, finchè il pomeriggio del 31 dicembre scorso, colpo di scena, non ho beccato questo.
https://www.youtube.com/watch?v=LjNhW2mR1lM
Devo dire che mi ha profondamente colpito il legame del trailer con la stretta attualità , da Putin a Facebook passando per gli smartphone e le web star; ma poi lo stile delle immagini diventa quasi minaccioso, freddo come le stanze di The Saw, superficiale come i festeggiamenti di fine anno da cui mi sono salvato di recente.
Insomma, ce n’era abbastanza perchè riesumassi il mio account Netflix per guardare uno degli ultimi episodi usciti ad oggi, ovvero Metalhead di David Slade: un episodio che mi letteralmente rapito fin dalle prime immagini. Si parla di un mondo post-apocalittico in cui tre persone si avventurano presso un misterioso capannone alla ricerca (almeno in apparenza) di qualche genere di prima necessità . Scopriremo solo alla fine di cosa si tratti (la voce di Wikipedia a riguardo è impunemente spoiler-friendly, per cui occhio a cosa andate a leggere: guardatelo che fate prima), ma nel frattempo ci gustiamo questi 45 minuti di pura narrazione, con una trama sostanzialmente semplice ed essenziale e – cosa incredibile – del tutto priva di lungaggini.
Uno stile che richiama inevitabilmente gli scenari apocalittici del primo Terminator (da cui si eredita l’idea delle macchine programmate meglio degli esseri umani) ma soprattutto sembra attingere a piene mani dal misconosciuto Hardware – Metallo Letale, forse uno dei film più autenticamente cyberpunk che conosca. Da questo film, a mio parere, emerge un’umanità disumanizzata ed incapace di rapportarsi con la tecnologia, tanto da rimanerne sostanzialmente sottomessa e sempre con una marcia in meno. Una condizione di inferiorità ormai conclamata, in grado di deprimere e di sorprendere soprattutto per un aspetto: la tecnologia di Metalhead è fin troppo ben programmata, non lascia nulla al caso, fa vivere androidi furbi ed in grado di affrontare ogni emergenza e, soprattutto, in grado di trovare sempre soluzioni di riserva a problemi quasi insormontabili. Basterebbe citare la donna che cerca di fare esaurire la batteria del cane da guardia – robot che la perseguita, finchè lo stesso non decide di attivare intelligentemente una sorta di “risparmio energetico“, in attesa di un momento migliore per attaccare.
L’aspetto che fa differenza, pertanto, è fondamentale: in questo episodio l’accento è posto non tanto sul contesto – che viene appena accennato: evidentemente i robot hanno preso il sopravvento sugli uomini, decimandoli – quanto sulla plausibilità scientifica dei “cani da guardia” , tanto che li hanno realizzati in modo del tutto identico a quelli prodotti realmente (per scopi militari, e fin dal 2010) dall’azienda Boston Dynamics. In pratica dei robot a quattro zampe concepiti per la logistica in zone impervie o ostili, in grado di camminare su qualsiasi terreno e addirittura di resistere a certi tipi di attacchi, che qui diventano in grado di aggredire le persone. Quel video è stato virale su vari canali fino a qualche tempo fa, lo ripropongo qui per chi non avesse presente.
Nota: resta arcano il motivo per cui qualcuno (me incluso) provi un certo dispiacere nel vedere questi robottoni presi a calci e maltrattati durante i test, per quanto ogni rimorso potrebbe venire meno dopo aver visto Metalhead.
Tornando a Black Mirror, e guardando un po’ di sfuggita anche altri episodi, un altro motivo per cui lo trovo apprezzabile è la sua poetica di fondo, che mi pare sempre molto coerente (anche al variare delle regie: David Slade ha diretto soprattutto horror, ma il suo episodio mostra davvero l’essenziale in tal senso, e non si vanta inutilmente di dettagli macabri) e tecnologicamente plausibile: un vero spasso per qualsiasi nerd, oltre che un piccolo schiaffetto a chi ha sempre pensato che le astronavi facciano rumore nello spazio. Tra l’altro i personaggi cambiano ogni volta, poichè si tratta di una serie antologica, e questo permette di gustarla in modo molto più flessibile di qualsiasi altra, nella quale per recuperare un minimo di filo logico sei costretto a partire dal primo episodio.
Black Mirror, in definitiva, potrebbe essere una delle definitive “serie hacker” di questi anni?
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