Con lo svilupparsi delle tecnologie informatiche si è accresciuto anche il fenomeno della pirateria informatica. Dapprima erano i CD masterizzati, poi i programmi crackati, quindi è arrivata l’epoca di Napster e la nascita del download illegale di file travestito da file-sharing e cosଠvia, fino ad arrivare a coinvolgere tutti gli aspetti del web in una battaglia legale tra utenti e detentori di diritti d’autore in cui la giurisprudenza il più delle volte ha dato risposte parziali e caotiche.
In questi giorni, dall’India, è arrivata alla ribalta della cronaca l’ennesimo episodio che pone ennesime domande più che dare risposte.
Pirati bannati … da WhatsApp
Sta facendo discutere in queste ore la decisione di un tribunale Indiano di ordinare ai gestori dall’app di messaggistica WhatsApp il ban dal proprio social di alcuni utenti ritenuti colpevoli di pirateria digitale.
Tutto nasce dalla denuncia presentata in tribunale dalla casa di produzione cinematografica indiana Zee Entertainment Enterprise che aveva appurato come alcuni utenti avevano condiviso su WhatsApp uno degli ultimi film da loro prodotto, l’attesissimo (nel mercato indiano) “Radhe: Your Most Wanted Bhai”. Da qui, in base alle prove contenute in alcuni screenshot in cui sarebbero immortalati dei frame del film, il giudice Sanjeev Nerula ha intimato a Facebook (società cui appartiene anche WhatsApp) di bannare 8 utenti dal social.
Al momento la vicenda lascia molti interogativi, poichè non è dato sapersi nà© come abbiano fatto le autorità indiane ad entrare in possesso di tali informazioni – per reperire i quali, in Europa, bisognerebbe fare i salti mortali data la crittografia end-to-end che protegge account e dati – nà©, tantomeno, in quale modo i condannati abbiano condiviso il film.
Da quanto si evince dal centro clienti dell’applicazione, tramite WhatsApp, al massimo, si possono condividere file della grandezza di 100 MB, troppo pochi per contenere un intero film, a meno che lo stesso non sia stato diviso in più parti e, qualora fosse, i giudici avrebbero dovuto trovare questi file video e non dei semplici screenshot i quali potrebbero essere stati scattati da un trailer online o da altra fonte legale, e non necessariamente dal file del film.
L’altra ipotesi è che gli utenti abbiano condiviso il link di un sito (o un codice torrent) dal quale guardare il film ma, in tal caso, basterebbe oscurare il sito in questione per rimuovere, almeno temporaneamente, il film dalle mani dei pirati.
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àˆ questa la soluzione alla pirateria?
Certo, la pirateria è un reato che si commette in due, un po’ come la corruzione: c’è il corrotto solo se c’è il corruttore, cosଠcome c’è il pirata solo se c’è l’utente che usufruisce dei suoi furti, ma la condanna del tribunale indiano ha comunque tanti lati paradossali soprattutto perchè va ad intaccare gli interessi di una terza parte, WhatsApp, che non ha e non potrà mai avere i mezzi per contrastare determinati atti.
In fondo WhatsApp è solo uno dei mille modi moderni di comunicare e il film piratato, sia stato esso condiviso come file oppure come link ad un indirizzo web, avrebbe avuto medesima sorte con qualsiasi altro metodo che la tecnologia ci mette a disposizione: il file del film non avrebbe potuto essere trasferito anche tramite chiave USB o email? E qualora gli utenti abbiano condiviso un link, questo non avrebbe potuto essere passato di mano in mano tramite SMS o semplicemente scrivendolo in maniera “primitiva” a penna su un foglio di carta del pane?
Sembra che sia stato punito di più il mezzo – Whatsapp, appunto, non tanto per aver perso 8 clienti di cui si farà una ragione senza troppi patemi, ma perchè sta subendo pubblicità negativa e un conseguente calo di iscritti spaventati dal fatto che i loro dati sono cosଠfacilmente reperibili non solo dalle autorità indiane (e meno male) ma anche dalla casa di produzione cinematografica che in qualche modo è riuscita ad individuare i pirati e denunciarli – che gli utenti che hanno piratato il film.
Ora, sappiamo bene che i gestori di siti e app sono responsabili dei contenuti che in esso circolano ma data la spropositata quantità di messaggi che ogni minuto ci scambiamo in tutto il mondo con WhatsApp, è del tutto impensabile (ed impossibile) avere un controllo totale su tutti i dati che circolano: se il signor Mario Rossi manda con WhatsApp un messaggio intimidatorio al signor Carlo Bianchi non vediamo nà© come i gestori dell’app possano venirne a conoscenza senza controllare arbitrariamente i nostri dati personali (cosa impossibile senza un’autorizzazione di un giudice o una denuncia da parte del signor Bianchi) nà©, una volta constatata l’esistenza dei messaggi minatori, si risolve il problema bannando il signor Rossi da WhatsApp avendo lo stesso a disposizione decine di strumenti del tutto simili per iterare le sue minacce.
Il cane che si morde la coda
Che il web e le nuove tecnologie debbano essere regolamentati è una cosa fuori di dubbio, e siamo certi che se tale regolamentazione non viene fatta a livello globale le iniziative che si possono prendere a livello locale alla lunga risulteranno essere dei palliativi, ma è altresଠvero che far difendere l’interesse della tutela dei diritti d’autore (cosa più che legittima) invadendo la sfera dei dati personali apre scenari preoccupanti poichè facilmente si uscirebbe dai confini della lotta alla pirateria, ancor più se il primo soggetto a dover vigilare su tali dati (il generico gestore di un social) teoricamente, per legge (almeno in Europa) non può accedere ai dati medesimi o, comunque, non li può divulgare.
In conclusione, pur rispettando la sentenza del trubunale indiano e i tutti i codici legislativi esistenti al mondo, ribadiamo che bannare gli utenti da un social per questioni per cui i gestori dello stesso non hanno potere di intervento può solo decretare la fine del social ma non intaccherà in alcun modo la pirateria che, combattendola con simili mezzi, si potrà sconfiggere solo chiudendo tutto il web, cosa che ci appare impossibile oltrechè assurda.
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