Cosa vuol dire “woke”

Il termine “woke” è stato originariamente coniato in contesti di lotta contro il razzismo e l’oppressione, in particolare all’interno delle comunità afroamericane, dove significava essere consapevoli delle ingiustizie sociali. “Woke” indicava un tipo di sveglia politica e morale, un invito ad essere attenti e reattivi alle discriminazioni razziali, alle disuguaglianze economiche e alle altre forme di oppressione sistemica. Con il passare degli anni, tuttavia, il termine ha subito una trasformazione significativa e complessa. Oggi, “woke” è diventato un’etichetta, una marca ideologica che viene usata, in maniera tanto superficiale quanto diluita, per esprimere una sorta di impegno sociale che però non sempre porta con sé un reale cambiamento strutturale.

La mistificazione del termine è iniziata quando “woke” è stato incorporato dalla cultura dominante e in particolare dai media mainstream e dalle industrie culturali. Quello che una volta rappresentava una consapevolezza radicale e un’opposizione alle ingiustizie è diventato qualcosa da esibire, da consumare, come una moda. In pratica, “woke” ha perso molto del suo significato originale di risveglio politico ed è stato trasformato in un comportamento che si adatta ai canoni della “virtù” consumistica. Piuttosto che mettere in discussione i fondamenti del sistema capitalistico e delle strutture di potere, è stato ridotto a una serie di pratiche di immagine e di etichette che non sfidano davvero le gerarchie sociali ed economiche.

In questo processo, il concetto di “woke” è stato diluito, come se bastasse adottare certe parole o comportamenti per essere considerati “giusti” o “progressisti”. La retorica “woke” è diventata un’etichetta che può essere facilmente adottata senza costi reali, senza necessità di cambiare nulla nelle condizioni materiali che perpetuano le disuguaglianze. La critica del linguaggio, le modifiche nel modo in cui parliamo o ci relazioniamo, sono importanti, ma non sono sufficienti se non si accompagna un cambiamento radicale nelle strutture di potere economico e politico.

Questo fenomeno può essere descritto come una “mistificazione” in cui l’attenzione viene spostata dal cuore della lotta sociale e politica a questioni più superficiali, come le modalità di espressione, i simboli o i gesti. Questo processo di mistificazione avviene non solo quando i media usano “woke” per creare polemiche vuote, ma anche quando le istituzioni politiche o aziendali adottano un linguaggio “woke” per sembrare più sensibili alle problematiche sociali, senza però cambiare nulla nelle politiche strutturali che mantengono le disuguaglianze.

La vera critica radicale non si limita a una forma di conformismo ideologico che cerca di apparire “giusta” senza mettere in discussione il sistema. Non basta riscrivere un contratto di linguaggio o adottare un codice di condotta più inclusivo per risolvere le radici dell’oppressione. Per esempio, il cosiddetto “woke capitalism” mostra come le aziende possano facilmente appropriarsi di questo linguaggio per promuovere la loro immagine, senza mai affrontare i veri meccanismi economici e sociali che creano disuguaglianza.

In ultima analisi, la mistificazione del “woke” avviene quando il concetto viene svuotato del suo potenziale radicale, trasformandolo in un gioco di identità e marketing, piuttosto che in un movimento per un cambiamento reale e profondo. Diventa una comodità ideologica, una modalità di sentirsi bene senza mai sfidare veramente le strutture di potere esistenti. Questo è il paradosso: il “woke” diventa una forma di compromesso superficiale che non minaccia il potere, ma piuttosto ne diventa parte integrante, attraverso il suo consumo.