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Bhopal: il peggiore disastro industriale della storia

Ciò che può causare la mancanza di manutenzione e opportune misure di sicurezza in uno stabilimento chimico è tragicamente testimoniato dal disastro di Bhopal del 1984 quando, in un misto di negligenze ed episodi sfortunati concatenati,  persero la vita migliaia di cittadini inermi.

Seveso: il disastro chimico italiano.

Prima di occuparci dei fatti di Bhopal, facciamo un passo indietro di qualche anno e riassumiamo ciò che avvenne in Italia in uno stabilimento chimico al confine tra i comuni di Meda e Seveso.

Il 10 luglio 1976, in Italia e in tutta Europa fece molto scalpore l’incidente chimico, noto con il nome di Disastro di Seveso, avvenuto nell’azienda ICMESA di Meda, in Brianza. Una fuoriuscita di diossina (triclorofenolo) dallo stabilimento causò l’intossicazione di centinaia di persone e l’abbattimento di migliaia di capi di bestiame. Una larga parte di terreno intorno allo stabilimento venne evacuata mentre l’opera di decontaminazione è durata anni.

Se, sul momento, ad esclusione di centinaia di casi di dermatiti e intossicazione non letali, le conseguenze sull’uomo sembrarono limitate, studi successivi hanno dimostrato che nell’area, a causa della contaminazione nociva, la percentuale di menomazioni neonatali sia superiore alla media cosଠcome l’incidenza di tumori, mielomi e leucemie.

Dopo l’incidente, la CEE (antenata dell’Unione Europea) decise di emanare la cosiddetta “Direttiva Seveso sui rischi industriali, tramite cui si imponeva agli stati membri di censire gli stabilimenti a rischio (chimico, biologico, nucleare) e si standardizzarono a livello europeo le norme di sicurezza degli stessi, nonchè le modalità  di contenimento e intervento.

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Foto di Clker-Free-Vector-Images da Pixabay

Ebbene, rispetto a ciò che avvenne nel 1984 nella città  indiana di Bhopal, l’incidente di Seveso sembra quasi uno scherzo.

I prodromi dell’olocausto di Bhopal

Nel 1969, la Union Carbide Corporation USA, colosso statunitense della chimica, tramite la sua sussidiaria indiana, edificò uno stabilimento nella città  di Bhopal per impiantarvi una linea di produzione dell’insetticida Sevin destinato al mercato locale. In sè, lo stabilimento venne accolto con favore dalla popolazione locale perchè, tramite questo, molti abitanti della città  di oltre un milione di abitanti – la maggior parte poverissimi – trovarono un lavoro ben pagato. Ma l’idillio durò poco e già  nel 1982, a causa di una crisi aziendale, quasi metà  della forza lavoro venne licenziata mentre, l’estate successiva, lo stabilimento chiuse definitivamente i battenti nonostante al suo interno fossero ancora stipati tonnellate di prodotti nocivi che, per loro natura, necessitano di continui trattamenti e misure di sicurezza.

Essendo le leggi Indiane molto più lasche di quelle occidentali per quanto riguardo la sicurezza degli impianti, già  nel 1984, la Union Carbide cessò di occuparsi dello stabilimento, licenziando anche i pochi dipendenti che si occupavano della manutenzione degli apparati di refrigerazione e pressurizzazione dei serbatoi nonchè della fiamma pilota da tenere sempre accessa in cima ad uno sfiatatoio, in maniera tale da bruciare ogni traccia di gas che potenzialmente riesca a scappare dai vari sistemi di controllo attivi nell’azienda. Ma la fiamma venne spenta insieme ai pochi altri sistemi di sicurezza ancora in funzione, noncuranti del demone che giaceva nelle viscere dell’impianto: l’isocianato di metile.

Il Sevin era un insetticida del tutto innocuo per l’uomo, brevettato proprio per sostituire il DDT usato fino agli anni sessanta che, oltre ad uccidere gli insetti, si era dimostrato essere cancerogeno per l’uomo. Per la produzione del Sevin venivano utilizzati diversi composti chimici tra cui, appunto, l’isocianato di metile, altamente tossico e da non fare mai e poi mai entrare in contatto con l’acqua (specie quella non distillata) perchè la reazione immediata che ne scaturirebbe è un repentino aumento di pressione e, di riflesso, innalzamento della temperatura ed elevata esplosività .

Ebbene, al momento della chiusura definitiva dello stabilimento di Bhopal, in tre serbatoi sotterranei erano stipate circa 60 tonnellate di questo composto letale. In uno di questi serbatoi ne era rimasta allocata circa una tonnellata, un’altro era pieno per meno della metà  e il terzo, infine, era pieno fino all’orlo con 42 tonnellate di prodotto.

La Union Carbide, conscia del fatto che – nonostante avesse ormai licenziato tutti i dipendenti, inclusi quelli addetti alla sicurezza – un minimo di manutenzione dell’edificio era comunque necessaria, il 2 dicembre del 1984, dislocò temporaneamente alcuni lavoratori di una fabbrica di batterie elettriche di proprietà  della stessa Union Carbide che si trovava sempre a Bhopal, per fargli effettuare delle pulizie nello stabilimento ormai chiuso. Questi operai erano del tutto ignari dei composti rimasti all’interno dello stabilimento e delle procedure di sicurezza minime per poterli trattare. Fu cosଠche uno di loro, cui era stato dato il compito di pulire delle tubature, utilizzò dell’acqua ad alta pressione che immise direttamente nelle condutture.

Il caso volle che le condotte che il lavoratore stava inopinatamente lavando erano collegate proprio con la cisterna completamente piena di isocianato di metile. Subito si innescò la reazione chimica tra i due composti e pressione e temperatura iniziarono inesorabilmente a salire. Poco dopo, gli addetti notarono che alcuni manometri stavano restituendo valori anomali ma, non essendo pratici della lavorazione che si svolgeva in quello stabilimento, minimizzarono fino a quando lo stabilimento non venne invaso da una strana puzza di cavolo. Ebbene, la puzza di cavolo è esattamente l’odore tipico dell’isocianato di metile che, con l’aumento della temperatura, era passato allo stato gassoso, aveva rapidamente risalito le condutture ed era arrivato allo sfiatatoio il quale, essendo ormai privo di fiamma pilota, permise la fuoriuscita incontrastata di tonnellate e tonnellate di gas tossico all’esterno della fabbrica.

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Foto di Pete Linforth da Pixabay

Il disastro

La nube tossica si diresse rapidamente verso la bidonville della metropoli e intossicò a morte migliaia di persone. Subito gli ospedale della città  si riempirono, invasi da un’orda di persone in preda a vomito, tremori, mancamenti e crisi respiratorie. Quando alle 00:04 l’allarme dello stabilimento di Sevin iniziò a suonare incessantemente, era ormai chiaro che un grave incidente fosse  accaduto e che tutte quelle persone giunte nei pronto soccorso erano vittime di una qualche forma di intossicazione chimica.

I medici chiamarono gli uffici indiani della Union Carbide per chiedere notizie ma l’unica risposta che ottennero fu di contattare la sede USA poichè loro non conoscevano quali sostanze giacessero ancora all’interno dello stabilimento di Bhopal. Il tempo passava, gli intossicati continuavano ad arrivare in ospedale e i morti aumentavano ogni minuto di più. Finalmente un medico riuscଠa mettersi in contatto con la sede americana della Union Carbide ma la risposta che ottenne fu agghiacciante:

non siamo autorizzati a comunicare quali sostanze sono conservate nello stabilimento di Bhopal. In ogni caso, il consiglio che possiamo darvi è di cercare di respirare il meno possibile.

Solo quando la puzza di cavolo pervase quasi tutta la città , arrivando al naso di qualche esperto di chimica, finalmente si capଠche l’intossicazione era dovuta all’isocianato di metile. Ma erano ormai passate molte ore dalla fuga tossica e il danno era già  irriparabilmente e tragicamente fatto.

Il bilancio stimato delle vittime, per quanto vari da fonte a fonte, non esistendone uno ufficiale, è catastrofico: si va dai poco meno di 4 mila morti stimati dalle autorità  provinciali ai 25 mila dichiarati dall’organizzazione non governativa Amnesty International, mentre gli intossicati sarebbero stati circa mezzo milione (metà  della popolazione di Bhopal). Migliaia furono anche i capi di bestiame morti. Ma la tragedia non si concluse in quel funesto 4 dicembre poichè, a causa della contaminazione di acqua, aria e terreno, negli anni seguenti esplosero i casi di tumore e alterazioni genetiche negli embrioni che ancora oggi, a quasi quaranta anni di distanza dagli eventi, continuano a manifestarsi nella città  indiana e nei suoi dintorni.

Il processo

Parlando dell’esito del “processo” ci viene in mente più quello dell’omonimo romanzo di Kafka che la massima manifestazione del giudizio democratico. La Union Carbide venne ritenuta l’ovvia responsabile della strage a causa delle indifendibili negligenze di cui si era resa colpevole. Ma il suo amministratore delegato, Warren Anderson, pur essendo stato condannato in contumacia a 10 anni di prigione, non scontò mai un giorno di carcere poichè il governo USA non diede seguito alla richiesta di estradizione avanzata dall’India. La Union Carbide pagò un indennizzo di poco meno di 500 milioni di dollari (a fronte dei 3 miliardi richiesti) che non arrivarono mai nelle tasche delle vittime o dei loro familiari, perdendosi nei mille rivoli dell’apparato burocratico e corruttivo indiano. La compagnia chimica nel 2001 venne rilevata dalla Dow Chemical che dichiarò che gli indennizzi pagati dai proprietari precedenti erano più che sufficienti e che quindi non avrebbe versato un solo dollaro al proposito.

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Insomma, come sempre a pagare è stato il popolo, soprattutto quello dei ceti più poveri che nel disastro avevano dovuto affrontare la morte di molti congiunti. A Bhopal, dal 1985 in poi, ogni anno si commemora il 4 dicembre quando, sulla pubblica piazza, vengono dati alle fiamme dei pupazzi raffiguranti Warren Anderson e i politici locali ritenuti colpevoli insieme a lui.

Ma, oltre alla rabbia, a questa povera gente non resta altro che continuare a vivere in miseria in una località  dove aria, falde acquifere e terreno continuano ad essere in larga parte ancora contaminate da agenti chimici letali, certi che ormai non vedranno mai nulla – risarcimenti o condanne scontate – che possa far loro ritenere che giustizia ci sia mai stata per quello che, a loro spese, è unanimamente riconosciuto essere stato il peggior disastro industriale mai verificatosi al mondo.

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