Non basta rimuovere le fake news dai social per risolvere il problema della disinformazione online: è quanto emerge da uno studio recente della Royal Society, che sostiene che la rimozione da parte delle piattaforme di certi contenuti, per quanto ingannevoli e faziosi, non basti di per sè a risolvere il problema. In un certo senso, è come se stessero provando a dire: cambiate approccio.
Fin dai tempi di Misinformation di Walter Quattrociocchi – un bel libro che ha molto da insegnare oggi, il quale racconta la polarizzazione dei pareri sui social come componente imprescindibile, a prescindere da dove stia la verità : una divisione in fazioni che succede, di fatto, in modo scorrelato dalla semantica dei dati sottostanti – era abbastanza chiaro anche che le forme più comuni di debunking fossero almeno in parte da rivedere: non perchè non funzionassero o fossero fatte male, intendiamoci, ma perchè quelli che erano i veri destinatari delle sbufalate non le capivano. Anzi, reagivano male, si offendevano, ti insultavano a volte. Non per colpa loro, pensiamo, ma “solo” (si fa per dire) perchè probabilmente la strategia di comunicazione in tal senso non era proprio corretta, o era proprio rivedibile.
àˆ quello che sostiene, a riguardo, il docente di matematica Frank Kelly:
la scienza vive sull’orlo dell’errore, e per sua stessa natura lo sforzo scientifico mostra sempre e comunque un margine di incertezza. Fin dai primi giorni della pandemia, la scienza è stata troppo spesso dipinta come assoluta, e ciò ha fatto passare il messaggio che non puoi più fidarti qualora si dovesse correggere. La produzione e la verifica della conoscenza ricevuta è, in realtà , parte integrante del progresso della scienza e della società .
Non potremmo essere più d’accordo e, secondo noi, sta tutto a ripartire da qui: rivedere non solo le priorità mondiali, ma anche rivedere il modo in cui divulghiamo la scienza, che non è fatta di assoluti ma sempre e comunque di conoscenza rivedibile e affinabile in seguito (non è fatta di relativi, beninteso: e basta leggere la teoria della falsificabilità di Popper per convincersene). Nella foga di difendere la scienza da attacchi spesso e volentieri balordi, per la verità , ci siamo quasi dimenticati della dimensione di margine di errore a cui la scienza è sottoposta, parlandone poco e male (quasi con un assurdo imbarazzo, a volte): cosa che non dovremmo ripetere in futuro per non ingenerare clamorosi o tragici equivoci. Soprattutto, dovremmo imparare a dare il tempo alle cose di accadere, abbandonando la frenesia psicotica del volere “tutto e subito” e puntare i piedi se il clima non torna a livelli accettabili entro questa settimana o se i vaccini non mostrano il proprio effetto 60 secondi netti dopo che te li hanno inoculati. La scienza è anche saper aspettare, correggere pacificamente e senza recriminare, rivedere, migliorare, dare il tempo alle cose di evolvere.
Questo è importante da tenere a mente quando cerchiamo di limitare i danni della disinformazione scientifica alla società : reprimere le affermazioni al di fuori del consenso può sembrare auspicabile, ma di fatto rischia di ostacolare il processo scientifico, e confina i contenuti fake effettivamente dannosi alla clandestinità , dando loro forza e dando un alibi di presunta persecuzione a chi li promuove. Bisognerà lavorare molto sulla corretta divulgazione della scienza, nei prossimi anni, mostrandola per quello che davvero è e non come un qualcosa tesa a zittire il dissenso: se è vero che la scienza non è democratica, come spesso ci hanno detto, ciò non vuol dire che non possa fare previsioni anche in parte errate, e poi non possa ricredersi in seguito senza essere accusata di incoerenza. Senza quella malintesa “incoerenza” di cui si parla, semplificando un po’ i termini, non ci sarebbe di fatto alcun progresso scientifico. Foto di copertina di Obi Onyeador on UnsplashÂ
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