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Perchè ci sono persone ostili allo smart working, ancora adesso

La parola smartworking è entrata nell’uso comune dai primi tempi del Covid-19 per sostituire ciò che, deliziosamente, fino a qualche tempo fa era definito “tele-lavoro” (che è una cosa sostanzialmente diversa, alla prova dei fatti, per inciso) o ancora più semplicemente “lavorare da casa“. Da libero professionista nel campo del web, del resto, il lavoro da casa – working from home, come mi suggeriscono si dovrebbe dire in modo più corretto – non è mai stato una grossa novità , motivo per cui non ho sofferto particolarmente la transizione.

Lo dico da persona che ama il proprio mestiere, si considera anche fortunato dato il periodo (per quanto sia lecito farlo senza urtare le sensibilità  dell’altro), ma non particolarmente stare chiuso in un ufficio, cosa che ho dovuto fare in molti casi (che non sto ad elencare) negli anni scorsi, evocando una sorta di liberazione ogni volta che finivo le commesse. Da SEO e da informatico non ho mai rilevato la necessità  di andare ogni giorno in ufficio, a fare cosa (poi) non si sa, e soltanto per una questione di mera parvenza; riconosco ovviamente un aspetto umano considerevole nel fatto di lavorare in presenza (rapporto diretto coi colleghi, e via dicendo), ma in molti casi devo riconoscere che trovavo sostanzialmente superfluo lavorare in quei termini, con uno spreco annesso di energie che secondo me se ne poteva fare a meno.

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Tante commesse pero’ le ho dovute fare cosà¬, per volontà  del committente, o mixando il working from home (mi rifiuto di continuare a chiamarlo smart, almeno in forma scritta) con il lavoro in presenza. Commesse in cui, in tantissimi casi, il committente – in modo più o meno subdolo, accondiscendente o passivo-aggressivo che fosse – di fatto pretendeva che facessi del lavoro in presenza da lui, perchè sai, parlando de visu secondo lui è tutta un’altra cosa, anche se poi la verità  era quasi sempre che il lavoro in presenza è tanto amato, perchè da’ al committente o al caso l’illusione del controllo sul dipendente o sul collaboratore di turno.

Nel mio caso, è stato frequentissimo che venissi sorvegliato (o addirittura criticato, in molti casi) perchè durante le “ore di lavoro” (che tali non erano, tanto che sono sempre stato libero professionista con partita IVA) si infastidivano che facessi “altro”. Cosa che dovevo fare per forza, ho sempre provato a spiegare, e non vedo proprio perchè debba rendere conto a te e regalarti il mio tempo in presenza. Se lavori con Partita IVA come in qualsiasi altra situazioni, la cosa essenziale è fissare delle regole per la collaborazione e cercare di essere chiari vicendevolmente, senza che ciò debba degenerare in atteggiamenti prevaricanti o, per reazione, rabbiosi.

Ad oggi, utopicamente, spero di non dover scendere più a simili compromessi.Non dico di continuare in smartworking (ecco, ci sono ricascato) a vita e fino alla pensione, ma almeno lavorare nel giusto equilibrio, essere pagato sulla proporzione effettiva del tempo impiegato per fare ogni cosa, non essere banalizzato nei miei compiti e non passare ogni volta per il tizio “un po’ meglio di mio cuggino bravo col PC”. Al tempo stesso, mi illudo che la dimensione smart non passi per un qualcosa contro cui si debba remare per forza di cose contro, considerando che non ne sono un difensore cosଠincrollabile come potrebbe sembrare: per dire, per un semplicissimo certificato in smartworking (via email, nello specifoc) presso una ASL italiana mi ha fatto aspettare un mese, mentre facendolo allo sportello ci avrei impiegato 10 minuti, al netto dei tempi in coda. Al tempo stesso, per citare un altro esempio, è da circa 30 giorni che aspetto per un cambio di residenza, modalità  mista in presenza / smartworking, nell’attesa che due comuni (quello di origine e quello di destinazione) si decidano a farmi sapere cosa altro debba fare per concludere la faccenda, considerando che uno è chiuso per Covid e l’altro lavora prevalentemente da casa, ma qui esce fuori proprio un limite concettuale che è annesso, purtroppo, a buona parte della burocrazia e della pubblica amministrazione nostrana. Fare le cose in smartworking, per alcuni, è quasi come chiedere un extra, una cosa per cui non ci si sente tenuti ed ecco, per dirla in modo gentile, ci vorrebbe più sensibilità  a riguardo.

Al tempo stesso capisco poco i vari manager e dirigenti che sbraitano contro lo smartworking, che è una cosa che in fondo andrebbe solo ben organizzata da ognuno, inserendo delle regole facili da rispettare e comprensibili per tutti. Ripeto: non si applica a qualsiasi mestiere, ma molto del lavoro si può organizzare in smartworking. Il problema, semmai, è che questo finisce per evidenziare i limiti tecnologici di molte persone, che si irritano (credo) nel doverlo riconoscere e questo evidenzia i limiti che nessuno vuole mai mostrare. L’alternativa quale sarebbe, mi chiedo: un mondo distopico in cui nessuno sbaglia, almeno in apparenza? Impariamo a convivere con un margine di errore, con il diritto di critica e con un atteggiamento proattivo, più tollerante e più empatico verso gli altri (io per primo, s’intende) e forse anche lo smartworking finirà  di essere un qualcosa contro cui, più di pancia che altro in molti casi, troppe persone remano contro senza un vero motivo.

Del resto, se viviamo nel paese in cui neanche una pandemia porta la maggioranza a rispettare le regole, come possiamo pretendere che avvenga lo stesso dentro le PMI e le Pubbliche Amministrazioni che in altri contesti ci vantiamo di ospitare nel nostro paese?

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