Perchè in Italia ci ostiniamo a parlare di smart working quando in Gran Bretagna il lavoro da casa viene definito, molto più semplicemente e letteralmente, “working from home“?
Una delle cose che la pandemia ci lascerà in eredità quando finalmente i contagi torneranno sotto controllo (e, ci auspichiamo, spariranno) sarà l’istituzionalizzazione e regolamentazione del cosଠdetto smart working sul territorio italiano. Sebbene tale pratica lavorativa da qualche anno – ben prima dello scoppio della pandemia – aveva iniziato ad avere una certa diffusione – soprattutto a vantaggio di categorie di lavoratori svantaggiati – con l’avvento del Covid-19 il suo utilizzo è diventato massiccio per quanto riguarda l’ammontare orario, e determinante per quanto riguarda la mole di lavoro che si è potuta sbrigare da casa, permettendo di tenere chiuse scuole e uffici che, altrimenti, avrebbero potuto essere un facile luogo di contagio.
Tele-lavoro, smartworking, lavoro agile
Nell’ambito delle consuete distinzioni burocratesi, prodotto tipico nostrano (purtroppo), molti hanno inizialmente posto il problema se chiamarlo con un termine inglese fosse davvero necessario. Come vedremo, dire “smartworking” non è il massimo anche perchè, di fatto, questa parola nemmeno esiste (come vedremo in seguito, anche se non è da escludere che possa seguire il destino del pluri-citato “petaloso”).
Del resto qualche italianista o presunto tale potrebbe obiettare di doverlo chiamare più “correttamente” telelavoro: il che sa di termine vetusto (un po’ come dire servizi telematici, una roba che ci riporta quasi ai tempi di Ada Lovelace), e se lo usi seriamente rischi solo di essere etichettato come boomer. Con una singola eccezione: il telelavoro in Italia sembra coincidere con il lavoro dei dipendenti da casa, ovvero sembra essere quello delle PA (Pubbliche Amministrazioni), ed è lଠche viene usualmente collocato e regolamentato (con tanto di legge apposita, del lontano 2004). Il fatto che si lavori da casa è sopravvalutato dalla pratica, tanto più in tempi di Covid-19, ed abbiamo visto tutti cosa possa comportare: stress maggiorato, reperibilità perenne, capufficio che a momenti si auto-installa tipo malware a casa e sindrome da burnout dietro l’angolo. Un’accezione, quella del tele-lavoro, che comunque è diversa dallo smartworking a qualsiasi livello.
Smartworking, in effetti, sembrerebbe un termine più “tranquillone”, legato all’uso degli smartphone, dei PC e dei tablet, con la gente rigorosamente in pigiama che produce (a volte più, altre meno), sottintendendo la possibilità che uno smartworker possa anche essere importunato a qualsiasi ora del giorno e della notte. Tanto è a casa, no?! Il presupposto quasi “padronale” di tutto ciò è probabilmente legato al fatto che se alle 17:59 eravamo tutti pronti a scappare dall’ufficio (Fantozzi docet), anche a costo di lasciare il sospeso mezzo mondo o assecondare la nostra personalità passivo-aggressiva, adesso che lavoriamo da casa potrebbe non essere cosଠscontato eludere la “sorveglianza”.
Quasi come se lavorare da casa non fosse neanche un lavoro, assecondando una vulgata (ampiamente mistificata per non dire falsa, ovviamente) molto diffusa, peraltro, dai benedetti social. In ambito informatico e ICT, ad esempio, è abbastanza comune la variante lavoro agile (dove agile è un termine inglese derivato, a sua volta, da uno specifico paradigma di organizzazione del lavoro, sulla falsariga di quello basato sui task), anche se per qualche motivo non ha (mai? Ancora?) preso piede come il vituperato termine in questione.
C’è a questo punto un “ma“, grosso quanto la casa in cui pensiamo di praticarlo, a smentire la possibilità che smartworking sia un termine da utilizzare sul serio.
Working from home is better!
Senza perdere ulteriore tempo a spiegare cosa sia questo benedetto smart working perchè crediamo sia ormai chiaro a tutti, vogliamo soffermarci un attimo a riflettere sul significato stesso della “famigerata” espressione “smart working“. Ebbene, la cosa che salta subito all’occhio è che stiamo parlando di uno pseudo-anglicismo. Se è facile spiegare che un “anglicismo” è l’assimilazione di un termine inglese in un’altra lingua, in questo caso in quella italiana – altri esempi di anglicismo, possono essere computer, pick-nick, router, fast-food e decine di altri vocaboli – dobbiamo soffermarci un po’ di più a riflettere sul perchè la locuzione “smart working” sia da considerarsi uno “pseudo” anglicismo.
Ebbene, il (triste) motivo è che chi ha voluto adottare questa locuzione – giornalista, politico o funzionario, non è dato sapersi – ha pescato un po’ a caso nel vocabolario inglese due parole che evidentemente gli stavano “simpatiche”, e le ha unite formando un’espressione linguistica che nella lingua inglese semplicemente non esiste. Se, infatti, nell’Oxford Dictionary questo termine semplicemente non c’è (troviamo al massimo networking, hardworking, overworking e reworking), potremmo pensare che smartworking sia una specie di “modo di dire” non esattamente convenzionale. A questo punto, per toglierci ogni dubbio, facciamo una rapida ricerca sul famoso UrbanDictionary (nei quali sono presenti termini “non convenzionali” diventati virali – in senso non letterale, è bene specificarlo… dato il periodo! – e che un dizionario classico mai riporterebbe), scopriremo che:
- esiste la definizione “work-smart” che si riferisce, però, all’abbigliamento da lavoro (sarebbero gli indumenti comodi oppure quelli imposti dal titolare per effettuare un determinato lavoro)
- non esiste neanche qui la definizione “smart work” (se cliccate a questo link il sito vi dirà che il termine ricercato non esiste).
Questa semplice considerazione, sia pur consapevoli che l’uso di nuove parole, col tempo, a volte permette di creare dei neologismi (e naturalmente ci sta), dovrebbe smontare il castello sul quale, da un anno a questa parte, smartworking è diventato un modo (vago) per dire “state a casa e lavorate da là¬, se potete“.
Nelle intenzioni dell’inventore di questo neologismo il termine dovrebbe significare “lavoro agile, lavoro intelligente” ma – posto che possiamo anche soffermarci a ragionare se sia veramente cosଠ(e non lo faremo) – ciò che non capiamo è il perchè abbiano deciso di inventare una locuzione in pseudo-inglese anzichè utilizzare le parole che la nostra bellissima lingua ci mette già a disposizione. Per darsi un tono? Per fingersi poliglotti? Perchè fa figo?
Come si dovrebbe dire, più correttamente?
Gli inglesi, ovvi latori della loro lingua, durante la pandemia hanno ampiamente fatto ricorso al lavoro da casa, come tutto il mondo occidentale, ma questo tipo di espletamento dei compiti lavorativi è stato da loro denominato “working from home“, che si traduce semplicemente e banalmente con “lavoro da casa“.
Insomma, lo “smart working” è uno “pseudo-anglicismo” poichè non è altro che una pura invenzione italica creata probabilmente da qualche “pseudo-professorone”, magari al soldo di qualche “pseudo-ministro”, e ripetuta fino alla noia da “pseudo-giornalisti” i quali, non essendo soddisfatti di violentare la sola lingua italiana, hanno pensato bene di sfogare le loro frustrazioni anche su quella inglese.
E, a ben guardare, scopriremo che smart-working non è l’unico pseudo-anglicismo inventato da qualche “pseudo-genio” italico, tant’è che ne esistono diversi e alcuni dei quali, entrati ormai nel linguaggio comune, sono del tutto inaspettati. Ad esempio la parola “autogrill“ è solo il nome di un’azienda che gestisce le stazioni di sosta e ristoro autostradale che in inglese si chiamano motorway service area.
Ancora più eclatante il caso dello sport della pallacanestro che in Italia chiamiamo usualmente “basket“. Ebbene, gli americani e gli inglesi lo chiamano basketball, poichè per loro il “basket” è semplicemente un “cestino” e mai un inglese capirebbe che ci riferiamo allo sport di Michael Jordan se alla parola “basket” non facciamo seguire la parola “ball” (idem dicasi per la pallavolo: si dice volleyball, non solo volley). Tra le decine di pseudo-anglicismi che l’ignoranza italica (perchè di questo stiamo parlando) ha voluto adottare, in chiusura, ve ne elenchiamo un altro che utilizziamo tutti ogni giorno: quello che per noi si chiama cotton fioc in Inghilterra lo chiamano cotton swab.
Non siamo e non vogliamo sembrare “talebani” della lingua italica – in un mondo multiculturale e globalizzato, come è giusto che la “pizza” venga chiamata cosଠanche in Groenlandia, è giusto che il “kebab” si chiami cosଠanche a Roma – ma violentare una lingua terza perchè non si conosce bene neanche la propria, riteniamo sia una cosa di cattivo gusto o, come direbbero gli inglesi, “kitsch“. O forse erano i tedeschi?
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