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Guida pratica al viral marketing ed ai suoi miti

La parola virale è spesso sulla bocca degli addetti ai lavori: quando sentiamo dire, ad esempio, che un articolo è diventato virale significa che è molto visitato, ha avuto molto successo sui social e via dicendo. Ma da dove deriva l’uso di questo termine, che oggi (in tempi di pandemia) potrebbe addirittura fare più paura del dovuto?

Pi๠o meno da fine anni ’90, in ambito internet, sentiamo parlare di viral marketing con riferimento a quelle campagne pubblicitarie, che si diffondono grazie alla condivisione spontanea da parte degli utenti su forum, community, social network e così via. Il termine, di per sè, possiede una certa dose di fascino comunicativo implicito: in effetti quando fu coniato (non è molto sicuro chi fu il primo a farlo, ma il primo uso attestato non sembra da attribuire, come fanno moltissimi, nè a Seth Godin nè tantomeno a Draper Fisher Jurvetson) sembra che fu relativo al lancio della nuova console di gioco PlayStation nel 1995, da parte di Lorrain Ketch e Fred Satler, che secondo loro sarebbe diventata virale. Quando venne introdotta nel linguaggio comune, faceva riferimento ad una diffusione di un prodotto su larga scala, quasi come un’infezione che si propaga senza limiti e, dal punto di vista di chi ne gode dei vantaggi, senza dover fare o spendere specificatamente nulla. Alla base del prodotto, ovviamente, c’era reale innovazione, qualità  e vantaggi per l’utente: ed è cosà¬, e solo cosà¬, che un qualcosa diventa virale sul serio (o ha un minimo di possibilità  di diventarlo).

La viralità si può davvero comprare?

La “viralità “, in questi termini, è stata accalappiata da agenzie di comunicazione e web agency (italiane e non solo) per cercare di distinguersi dalla massa di concorrenti, ed arrivando a “venderla” come se fosse un prodotto. Un esempio? Ho bisogno di visibilità  per il mio e-commerce, compro viralità  e risolvo il mio problema, magari creando, per dire, video virali. È assurdo: che ci crediate o meno, ci sono addirittura tutorial come questi che spiegano come rendere virale un video.

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Con questo articolo, pertanto, mi piacerebbe chiarire una cosa che è rientrata in parecchie discussioni in passato, e che riguarda un’idea molto amata (a ragione) da marketer e clienti di ogni tipo: il viral marketing. Un effetto prodotto da una molteplicità  di fattori che porta le persone a condividere, cioè a rendere “virale”, un contenuto sul web, tipicamente sfruttando social news e soprattutto social network.

No, il viral non si vende (mentre i pomodori si possono comprare al supermercato)

Senza voler tirare in ballo link che si rivelerebbero quasi certamente imprecisi, diciamo che l’idea viral, di video viral o contenuto virale, si sviluppa e si formalizza grazie a due libri che considero fondamentali per il marketing online:

  1. Seth Godin: Unleashing the ideavirus, del 2001
  2. Bernard Cova, Alex Giordano, Mirko Pallera: Marketing non-convenzionale, del 2008

Questi due libri fanno parte del background a cui faccio personalmente riferimento per trattare l’argomento, soprattutto da quando mi è capitato di leggere articoli sulle strategie, regole e tecniche per rendere un contenuto virale.

Possiamo vendere una “consulenza virale”?

Andiamo da un cliente e gli diciamo: che problema c’è? Ti faccio diventare viral e passano tutte le tue paure, rientri nell’investimento, guadagni e siamo tutti felici. No, non credo affatto che possano esistere questo genere di approccio (che, nonostante tutto, in alcuni casi viene addirittura venduto come servizio) per lo stesso motivo per cui è impossibile creare strategie “di successo”, e perchè detta ancora più semplicemente nessuno è in grado di prevedere il futuro. Per quanto, poi, le statistiche in mano a molti facciano diventare vari imprenditori parecchio presuntuosi, facendoli partire dall’assunto che “se ha funzionato per il competitor, funziona anche per me, lo copio ed è fatta“. Il che poi poi evolve in idee “geniali” come:

realizziamo “cose” viral!

Mi viene spesso obiettato, a questo punto, che esista gente in grado di riprodurre quell’effetto virale solo perchè è stato in grado di farlo in passato: nessun dubbio sul fatto che ci siano riusciti, ma (facendo un parallelismo calcistico) se un attaccante ha segnato 90 gol fino ad oggi – numeri al di sopra della media, per intenderci – non è affatto scontato che riesca a segnare il novantunesimo quando piace a noi o “a comando” in qualsiasi circostanza.

Soprattutto, chi vende viral in questi termini non considera, secondo me, che il contesto cambia, e che non è detto che una campagna effettivamente viral della Nike (per esempio) non sia per forza di cose applicabile alle piccole PMI, ad esempio.

“virale” è un effetto, non una causa

La viralità  di un contenuto, parlando in termini semplificati, è un effetto (non una causa come ingenuamente molti credono) che deriva dal contenuto, o meglio dalla sua capacità  di diffondersi, di solito per motivi puramente emozionali o di pancia (il content is king va a farsi friggere), spesso legato ad aspetti appetibili o del tutto morbosi. Secondo un’efficace sintesi di Gagliardini, ad esempio

“i video virali non nascono a tavolino e non è possibile stabilire a priori quanto un video sarà  apprezzato e condiviso in rete“.

Resta da considerare l’aspetto legato al contesto: per incrementare il numero di link in ingresso, ci sono settori commerciali e nicchie di siti che vivono parecchio di viralità , e che fanno i conti ogni giorno con campagne di marketing controverse e provocatorie.

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