XCheck, il sistema di verifica dentro Facebook che tutelava VIP e politici


Un sistema interno per gestire le utenze di Facebook, in barba alla trasparenza che dovrebbe contraddistinguere la piattaforma. Un’inchiesta del WSJ svela il caso inquietante di XCheck, un protocollo aziendale pensato per tutelare gli account di utenti VIP e creare potenziali dissapori dal loro ban. Con il risultato, in molti casi, di ottenere l’effetto più temuto, ovvero utenti che violano le regole e a cui non viene fatto nulla.

Facebook è sempre stato presentato come piattaforma social e paritaria, in grado di mettere in comunicazione l’uomo della strada con il politico, il tifoso col calciatore e cosଠvia (con tutte le conseguenze del caso, ovviamente). Da quanto emerge da un’inchiesta portata avanti dal Wall Street Journal, pero’ (per leggere l’articolo bisogna registrarsi gratuitamente con un social o una mail), le cose non starebbero proprio cosà¬: lo proverebbe l’esistenza di XCheck, una misura di controllo qualità  nei confronti delle azioni intraprese contro account di politici, giornalisti e VIP in genere. Se le intenzioni del programma erano abbastanza chiaramente in buona fede, di fatto XCheck finisce per essere una misura in grado di schermare il comportamento sui social di politici e “pezzi grossi” a prescindere, apparentemente, dalla gravità  di ciò che commettono, ed eludendo eventuali azioni da parte dei dipendenti dell’azienda preposti al controllo. Tra i criteri adottati, WSJ nota che erano presenti cose come l’essere “degno di nota”, “influente o popolare”, “rischioso per le pubbliche relazioni”. Tra i VIP inseriti nel programma troviamo Neymar, Donald Trump, Donald Trump, Jr. , Mark Zuckerberg stesso, Elizabeth Warren, Dan Scavino, Candace Owens e anche Doug the Pug, il cane delle celebrità .

XCheck sarebbe arrivato a dare protezione a personaggi pubblici anche nel caso in cui i loro post contenevano molestie, contenuti non consentiti o incitamento alla violenza: tutte violazioni che per gli utenti ordinari avrebbero portato a ban o penalità  di vario tipo. XCheck sembra essere stato utilizzato per proteggere vari diffusori di bufale di ogni genere, inclusi casi di possibile stupro, falsità  sui vaccini e insulti razzisti. àˆ anche abbastanza chiaro che le intenzioni del programma, cosଠcome riportato da un portavoce dell’azienda, fossero quelle di evitare il ban troppo facile, o a “furor di popolo”, di personaggi molto in vista quanto controversi – ma alla prova dei fatti ciò ha finito per costruire una sorta di casta, anche di dimensioni relativamente importanti.

“A differenza del resto della nostra comunità , queste persone possono violare i nostri standard senza conseguenze“.

Non il massimo, insomma, per una piattaforma travolta già  in passato da uno scandalo annesso alla privacy, che fa sempre meno della trasparenza una priorità  e che si ritrova, per l’ennesima volta, a dover giustificare un operato quantomeno discutibile. La cosa incredibile è annessa anche ai numeri: XCheck è arrivato nel 2020 ad includere ben 5,8 milioni di utenti “VIP”, creando una sorta di elite interna, nascosta fino ad oggi. E probabilmente, verrebbe da dire, non troppo diversa da ciò che avviene nella realtà .

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Zuckerberg avrebbe stimato, nel 2018, che la sua azienda avrebbe sbagliato solo il 10% delle proprie decisioni di rimozione dei contenuti in caso di violazioni, senza contare che molti casi erano senza appello o possibilità  di ricorso, e molti casi finivano con un ban senza nemmeno far sapere alla persona quale regola avesse violato. Gli utenti che venivano segnalati dentro XCheck, pero’, venivano trattati con maggiore attenzione: se sulla carta il meccanismo avrebbe dovuto evitare shitstorm e analoghi meccanismi di boicottaggio virtuale (come nel caso dei politici, ad esempio), Facebook ha adottato una linea alquanto moderata, per non dire peggio: i ban di utenti appartenenti a XCheck venivano processati a parte da altri dipendenti, soggetti a livelli di revisione successivi sicuramente più avanzati di quanto non avvenisse per gli utenti ordinari.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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