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10 cose che ti rendono insopportabile sul luogo di lavoro

Avremmo potuto elencarne anche di più, ma perchè infierire? A parte il sarcasmo, crediamo che questi punti possano e debbano far riflettere chiunque abbia l’arduo compito di gestire le risorse umane, soprattutto nelle aziende di piccole e medie dimensioni. Rendersi insopportabili rende il lavoro più difficile di quanto non sia per tutti, e tende a far prevalere atteggiamenti prevaricanti o passivo-aggressivi che sono sempre dietro l’angolo.

Anche senza avere pretese di “fare carriera” o diventare chissà  cosa (il mondo è pieno di CEO presso se stessi), nella mia esperienza ci sono un po’ di errori da non commettere per evitare di sembrare irritanti o generare equivoci sul posto di lavoro. Molti di questi errori li ho commessi anch’io, e quindi vale anzitutto come richiamo per me stesso; molti altri sono, di fatto, errori che ho visto commettere, senza distinzione esplicita (solo per motivi di chiarezza espositiva) tra gli uni e gli altri. Vediamo i 10 che secondo me sono più importanti di altri, a questo punto.

Sopravvalutazione generale: di se stessi e degli altri

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Photo by Max van den Oetelaar on Unsplash

Se da un certo punto di vista la sopravvalutazione è in qualche modo necessaria, e funziona indirettamente come motivational per moltissimi di noi – soprattutto qualora le sfide lavorative da affrontare siano particolarmente ostiche – l’abitudine a sopravvalutarsi è più diffusa di quanto potrebbe sembrare. In questi anni le volte in cui lavoravo su progetti sovradimensionati e con ambizioni irrealistiche (faremo quotare in borsa l’azienda per cui lavoriamo ed abbiamo sede nel garage di mio zio, faremo il nuovo Facebook, faremo un Ebay per le auto mentre il budget a disposizione magari era di 5 mila euro da dividere tra 10 persone), in molti casi erano proprio le competenze a latitare. àˆ il caso classico dei “bravi col computer” a cui viene richiesto di fare tutto, ma è anche il caso di chi viene chiamato a fare SEO e diventa una specie di “assistente personale” che fa di tutto (incluso le pulizie dell’ufficio e le campagnette su Facebook).

La sopravvalutazione è anche una delle cose più difficili da far notare in modo pacifico: se lo fai, infatti, rischi di passare per vile boicottatore. Certe cose, come dico sempre, bisogna saperle anche dire nel modo giusto, e si impara con l’esperienza e probabilmente con un po’ di sana empatia con l’altro.

Ostentare perfezionismo fine a se stesso

A volte ci sono colleghi che sono il contrario del pigro: per mostrarsi attivi e proattivi prima di tutto con se stessi, tendono a mal interpretarsi e si irrigidiscono nei requisiti, spesso creando presupposti futili che agli altri colleghi, tuttavia, “sembra brutto” far notare che lo siano. àˆ il classico problema che si crea quando manca un project manager competente, cosa che è capitata molto spesso nella mia esperienza e che alla prova dei fatti si traduce in perfezionismo, per l’appunto, che il cliente nemmeno percepisce e che, per assurdo, può percepire come mera perdita di tempo.

Cadere dal pero

Questo atteggiamento pare che sia tipico delle persone passivo-aggressive, che tendono a procrastinare gli impegni e cadono dalle nuvole quando quando gli fa notare che c’è un problema, o maagri vengono avviate indagini interne per capire cosa sia successo. Di fatto, chi cade dal pero in caso di errori – fermo restando che tende ad avere un rapporto conflittuale con gli errori in genere e tende, passivamente, a dare l’ok anche quando non è per nulla convinto di farlo – attribuisce la colpa agli altri, raramente o mai si assume responsabilità  e, a che qui, tende a mostrarsi servile con il capo per poi parlarne male di nascosto quando lui non c’è.

Un atteggiamento con cui ho sempre avuto molte difficoltà  a relazionarmi, e a cui tendo a non dare più potere di quanto non meritino. In genere a queste persone devi dare incarichi idealmente privi di responsabilità , e sono adatti a fare gli operativi puri. Cosa peraltro non sempre attuabile, per cui bisognerebbe sempre valutare con attenzione questi casi.

Creare clan e faide interne

In una quantità  innumerevole di casi mi è capitato di assistere, dentro a dei gruppi di lavoro anche apparentemente pacifici o armoniosi, la formazione di “clan” tra colleghi che solidarizzavano tra loro, quasi sempre in odio a qualcun altro. Ho visto dipendenti coalizzarsi contro project manager, ma anche addetti a vari reparti fare comunella contro qualcun altro, anche se (bisogna scriverlo) per motivi leciti in alcuni casi. Del resto, se qualcuno rallenta o ostacola qualcun altro, è sacrosanto farlo notare anche se, di fatto, non deve diventare un personalismo.

Il problema esce fuori quando questo atteggiamento critico viene portato all’estremo, e diventa una questione di regolamento di conti modello far west che, al netto della sua scarsa eleganza, nulla ha a che fare con la qualità  del lavoro che si fa. Quando si creano clan, peraltro, è difficilissimo misurare la qualità  del lavoro: se fai notare un problema perchè sei costretto a farlo, generalmente o ti aggrediscono o – se gli stai simpatico – o ti sminuiscono, che forse è ancora peggio perchè implica il seppellimento definitivo della qualità .

Molte persone non potrebbero di fatto stare in azienda perchè si aspettano quasi di lavorare solo con chi gli è simpatico: ma questo alla prova dei fatti dipende anche dal fatto che creare un clima collaborativo o empatico è quasi impossibile nel 95% dei casi di mia conoscenza. L’abitudine a metterla sul personale è altrettanto radicata anche in questi casi, purtroppo.

Lavorare senza orari

Questo è un problema tipico dei freelance, che interpretano malamente il “non avere orari da ufficio” come lasciapassare per far presente problemi o mettere pressione anche di sabato sera. Lavorare senza orari va bene per alcune attività  (quella di avere un sito editoriale e scriverci ad esempio, è perfetta) ma va male se non tiene minimamente conto delle esigenze altrui, e può rischiare di innescare nervosismo nell’altro.

La cosa più sbagliata in questi casi è meravigliarsi se uno non dovesse rispondere in modo impeccabile se lo contattiamo fuori dall’orario di lavoro: darsi degli orari aiuta a non precipitare nel problema del burnout, ovvero “scoppiare” per il troppo lavoro e la mancanza di auto-disciplina (dovuto anche al fatto che magari il capo o il collega “non si regola” nei nostri confronti), una circostanza parecchio più diffusa e generalizzata da quando è uscito fuori il lockdown con conseguente smartworking.

Non aggiornarsi, non studiare per pigrizia

Molta gente interpreta il proprio lavoro come un qualcosa che non ha nulla a che vedere con lo studio, perdendosi in atteggiamenti da leader o da esperto di un settore in cui, in realtà , non sa nulla. Non aggiornarsi in ambito ICT ad esempio è un delitto vero e proprio, eppure delle volte è proprio il clima aziendale a portarti a non farlo perchè, tanto, è inutile. Non studiare come contrapposizione al pragmatismo delle “scelte efficaci” porta ad un atteggiamento meramente illusorio, in cui tutti credono di essere dei geni e nessuno fa autocritica.

Ed i problemi, in questi casi, escono fuori quando meno te l’aspetti.

Non ammettere mai i propri errori

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L’orgoglio, quello meno credibile e più improprio che si possa immaginare, anche qualora comporti la negazione della realtà . Un vero e proprio classico legato, a mio modo di vedere, ad una generale mancanza di cultura dell’errore: l’errore come demone da esorcizzare, l’errore come motivo di onta personale e disonore, nell’ottica più tradizionalmente stakanovista o, per dirla meglio ancora, legata al più cieco positivismo (dal quale peraltro deriva un atteggiamento ancora peggiore del non ammettere gli errori: il funzionalismo, ovvero il ritenere che le app e l’ITC possano “risolvere problemi” a prescindere, anche qualora non siamo nemmeno stati in grado di formalizzarli, quei problemi). Convivere con gli errori propri ed altrui aiuta a costruire un clima più vivibile, evitando anche che le persone possano partire in quarta, alimentare pregiudizi e guastare il clima collaborativo del gruppo.

Non riconoscere gli errori propri è un aspetto negativo che tende ad intricare i problemi, e c’è anche un aspetto meno considerato e comunque importante: riconoscere sempre gli errori degli antipatici, e negare gli errori dei colleghi che ci stanno simpatici. Fare comunella tra colleghi, come dicevamo prima, è il modo più semplice per spaccare l’unità  di intenti dei gruppi di lavoro, ed è una cosa che ho osservato in più casi: si chiede efficenza, efficacia e precisione sul lavoro, e finchè lo facciamo da soli tutto OK.

Quando pero’ tocca (perchè a volte tocca, non è cattiveria o altro) far notare che è stato un collega a sbagliare, e che ereditiamo una situazione complicata per causa sua, chi solidarizza o simpatizza per quest’ultimo (anche solo per motivi ormonali o perchè la biologia gli ha regalato un aspetto gradevole, banalmente, a volte) difficilmente ammetterà  quell’errore per evitare l’onta di averlo “accusato”.  Un circolo vizioso che andrebbe spezzato in nome della mancanza di personalismi e, al tempo stesso, gestendo al meglio le risorse umane.

Non dire mai quello che si pensa

Questo è un altro classico, secondo me, ma ho sempre avuto difficoltà  ad attuarlo: se dico ciò che penso il più delle volte passo per nichilista, o peggio ancora (in ottica aggressiva o sminuente) mi dicono che non è affar mio, e che io sarei pagato per “fare altro”, non per giudicare. Ora, se è vero che un giudizio lascia il tempo che trova, è anche vero che in molti casi il giudizio aiuta a mettersi nei panni dell’altro, costruendo relazioni che sono tutt’altro che costruttive e che poi inficiano sulla qualità  del lavoro.

Conosco colleghi che per opportunismo, e perchè tanto a fine mese mi danno lo stipendio, non dicono mai un parere apparentemente contrario alla maggioranza, e questo porta a demonizzare chi lo fa e a considerarlo addirittura antisociale, in alcuni casi. Non meraviglia, se non altro, che chi mente ipocritamente per 20 anni poi avverta malessere ogni volta che va in ufficio.

Mancare di disponibilità  o darla “a singhiozzo”

Una faccia della medaglia di un atteggiamento generalmente, anche qui, passivo-aggressivo: il collega che lascia le cose a metà , fa finta di fare le cose o le rinvia all’infinito in attesa che qualcuno si lamenti e lui possa continuare a provocare e perseverare nel cadere dal pero o far finta di nulla, lo abbiamo avuto più o meno tutti.

La mancanza di disponibilità  è anche tipica di chi tende a fare lo stretto necessario, gli opportunisti modello “perchè tanto a fine mese mi pagano uguale“, che tendono spesso (anche se non solo loro, in molti casi) a guastare e logorare il clima costruttivo dell’ufficio e, in alcuni casi, finiscono per logorare la propria stessa vita, rendendo il proprio andare in ufficio una sorta di incubo progressivo.

Giudicare un’attività  pregiudizialmente noiosa o inutile

Qui bisogna sfatare un po’ di miti: se ti assegno un task da svolgere e lo fai controvoglia, è possibile che tu non riconosca l’utilità  di ciò che fai. Bisognerebbe capire meglio i motivi: sono rari i dipendenti che effettivamente sappiano dare il giusto valore a ciò che fanno, e nella mentalità  più mediocre è tipico – purtroppo per tutti – che chi svaluta il proprio lavoro tenda a svalutare di conseguenza l’ambiente circostante.

In un’agenzia in cui ho lavorato per qualche mese c’era questo tema ricorrente: il lunedଠci incitavano a produrre di più, il venerdଠdominava la noia e un collega in particolare (anche qui, neanche a dirlo, sul genere passivo-aggressivo) non faceva che trasmettere sfiducia su ciò che lui stesso faceva. Sembrava quasi che lui stesso non credeva in ciò che stava facendo, e sminuiva di conseguenza il lavoro sia proprio che altrui: alla lunga, il collega è andato via da quell’azienda e molti, di fatto, l’hanno seguito poco dopo.

Non tutti sono in grado di giudicare obiettivamente l’operato di qualcuno, e questo mio ex collega ne è la prova vivente: al tempo stesso, pero’, altri potrebbero essere inaspettatamente abili e obiettivi a capire le criticità  e individuare le attività  poco produttive che si eseguono. Il che non vuol coincide con il banale giocare ai videogame in ufficio, bensଠpassare il tempo a scrivere report modelli “saggi letterari” che non leggerà  mai nessuno, magari con l’idea molto italian-style che “io lascio traccia di ciò che faccio cosଠnessuno mi potrà  dire nulla o recriminare sul mio operato”. Il che può anche bene, per carità , ma c’è modo e modo per farlo: la cosa essenziale è non perdere di vista il dialogo costruttivo con quelli che, diciamo, sembrano un po’ più svegli a capire dove si possa ridurre il carico di lavoro inutile. Un problema che causa la classica dispersione di compiti e obiettivi tipica di molte aziende ed agenzie con cui ho lavorato negli ultimi anni. Alla base, in molti casi, c’è il fatto di aver considerato inutile un compito ed averlo svolto male, con conseguente effetto a catena negativo anche su ciò che facevano i colleghi.

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