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Net Neutrality: il suo significato e cosa implica nella pratica per gli utenti

Per sua stessa definizione, internet è la “rete delle reti“, il che vuol dire che si tratta di una rete interconnessa a più livelli (LAN, MAN e WAN, rispettivamente rete locale, metropolitana e globale, ma anche livelli stratificati di comunicazione). Essendo in effetti basata sul protocollo TCP/IP, abbiamo più strati che comunicano tra di loro: uno di questi è il livello applicazione, con cui viene a trovarsi HTTPS ed il suo funzionamento come protocollo criptato e protetto.

Vale nella comunicazione il cosiddetto principio del best effort: per poter garantire livelli di comunicazione adeguati, non ci sono prescrizioni o obblighi nella comunicazione, per cui ognuno fornisce liberamente il miglior servizio che può. I pacchetti non possono essere “discriminati”, e questo dovrebbe garantire quella che viene chiamata “neutralità della rete”, net neutrality, un principio caro soprattutto agli hacker e a quelli libertari, in particolare.

La network neutrality è definita nel modo migliore come un principio di progettazione. L’idea è che una rete informativa pubblica massimamente utile aspiri a trattare tutti i contenuti, siti, e piattaforme allo stesso modo. Ciò permette alla rete di trasportare ogni forma di informazione e di supportare ogni tipo di applicazione. Il principio suggerisce che le reti informative abbiano maggior valore quando è minore la loro specializzazione – quando sono una piattaforma per usi diversi, presenti e futuri. (Timothy Wu, Columbia University)

Cosa comporti la mancanza di net neutrality è oggetto di dibattito da quasi 40 anni, ad oggi. Vale la pena di ricordare il funzionamento generale del TCP/IP, che parte da un livello applicativo (essenzialmente per le pagine web) e sul modello client server e poi si dipana, nei livelli successivi, a livello di trasporto (lavorando su porte e sessioni), a livello di rete (nodi comunicanti), a livello link (routing tra nodi) e a livello fisico. La figura degli ISP (Internet Service Provider) diventa a questo punto fondamentale: sono loro a fornire il servizio di collegamento ad internet agli utenti finali e alle app, mettendo a disposizione una infrastruttura a più livelli. A livello di ISP, ci sono tre possibilità basilari:

  • ISP di strato 1 (Tier 1), che sono quelli che lavorano sulle dorsali oceaniche, ragionano con altri peer e comunicano esclusivamente tra di loro, e che non pagano per accedere al servizio;
  • ISP di strato 2 (Tier 2),che qui invece pagano l’accesso per poter comunicare tra di loro;
  • ISP di strato o tier 3, infine, che sono i comuni “reseller” o rivenditori della connettività, sia per clienti business o privati.

Gli ISP possono, su richiesta o per convenienza, andare a bloccare o filtrare il traffico: ad esempio per contrastare la pirateria su pressione di case cinematografiche e/o musicali. Se questo può essere considerato corretto in termini di applicazione di legge diventa facile oggetto di potenziali abusi: di fatto, noi  utenti”vediamo” la versione di internet determinata dall’ISP da cui ci connettiamo, che può (esempio banale e comunissimo) inibire l’uso di un’app illegale oppure, ad esempio, evitare la possibilità di connettersi ad internet. Il rischio minitelisation diventa reale, per alcuni autori, e consiste nella possibilità che internet smetta di essere un mezzo usabile per vari scopi, e diventi tale solo per alcuni di essi (su alcuni treni, ad esempio, è in atto una cosa del genere in piccolo: la wireless si collega ad internet ma funziona solo su alcuni siti e alcuni servizi, bloccando tutti gli altri).

A questo punto diventa anche possibile che un ISP di livello 3 possa, arbitrariamente, decidere tariffe separate per ogni singola app che usa internet, e faccia pagare un canone specifico ad es. per l’uso di WhatsApp o di Facebook, oppure – ancora – possa imporre pubblicità senza consumo di banda per l’uso di certe app (cosiddetto zero rating). Secondo i più, tale pratica sarebbe contraria alla neutralità della rete, ma ci sono gruppi che sostengono l’esatto contrario pur essendo pro net neutrality. Di fatto, a nostro avviso, il problema non è solo “non voler pagare”, come certa ottica minimalista tende a far credere: si tratta di assumere che un ISP potrebbe in teoria favorire alcuni servizi su altri, imponendo le proprie scelte all’utente finale in ragione di accordi commerciali specifici.

Secondo Timothy Wu, del resto, gli utenti della banda larga devono avere il diritto di usare la loro connessione in modi che sono privatamente a beneficio personale, purchè non siano decrementali a livello pubblico e nel rispetto delle leggi di ogni stato. La trattazione della tematica è ancora in corso, e non finirà facilmente: se negli USA si era verificata una relativa apertura contro la net neutrality, in Europa sono sempre stati più attenti, almeno finora, ad evitare l’uso di app che non fossero application agnostic, ovvero che un ISP possa discriminare dall’esterno, prendendosi il diritto di farsi pagare a parte per l’uso di una certa app specifica.

Foto di copertina: Prateek Katyal: https://www.pexels.com/it-it/foto/laptop-in-bianco-e-nero-2740956/

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