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Tabù vacanze: contro il culto della produttività ad ogni costo

Perennemente in ritardo su alcuni fronti lavorativi, ricevo qualche tempo fa due mail da due clienti diversi, i quali mi chiedono aggiornamenti o delucidazioni sulle tempistiche delle attività concordate. Mi rendo conto di essere a ridosso delle meritate ferie (sono già in ferie ad oggi, e questo articolo appare online oggi dopo essere stato ultimo a inizio agosto, ndr), rispondo semplicemente che “se ne riparla a settembre” e, come dire, tanti saluti.

Mi sento, tuttavia, vagamente in colpa nel farlo: mi rendo conto che non vado in ferie da molto tempo, do’ spazio a questa idea e non annullo l’invio della mail (una funzionalità peraltro utile che, nella frenesia dei tempi moderni, andrebbe sfruttata di più o rivalutata). È da troppo tempo che non stacco dal mio lavoro: troppo tempo in cui ho lavorato praticamente sempre, da bravo libero professionista (o freelance come va di moda scrivere oggi), e questa cosa mi fa riflettere, pensare e scrivere quanto ho da dire in questa sede.

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Eppure quel sia pur vago senso di colpa come faccio a spiegarlo in modo razionale? Se siamo in mezzo al marasma delle attività lavorative annunciare di andarsene in ferie suona quasi come dichiararsi cannibali, feticisti, appassionati di peti o mangiatori di lame arruginite: veri e propri tabù, in termini antropologici, che sembrano fare fastidiosamente i conti con il fatto che da freelance lavori quando e come ti pare, il che si traduce grottescamente nel fatto che lavori sempre. C’è di mezzo la responsabilizzazione assoluto, indelegabile, il fatto che sia pur cambiando più lavori negli ultimi anni mi ritrovo sempre nella condizione che ci siano cose non rinviabili, da fare entro X, pena l’estinzione del genere umano, l’eventuale ostilità passivo-aggressiva del tuo referente e tante altre cose da autentica carovana degli orrori. Per quello che vale, mi interrogo più che altro sul perchè mi sento così e cosa, soprattutto, possa fare per rimediare. La risposta è sempre la stessa: andarmene in vacanza. Tanto più che è già la seconda volta che lo faccio, quest’anno -e  questo rende ancora più minacciosamente colpevolizzante la questione.

Esiste a mio parere un culto della produttività ad ogni costo che impone, nello specifico nell’ambito IT (ed immagino anche in tantissimi altri ambiti) che restare produttivi e iperattivi sul lavoro ad ogni costo sia cool, degno di considerazione sociale, sia in grado di renderci più affascinanti, sexy e utili alla causa della nostra amata azienda. Ci fa anche sentire tranquilli: lavoriamo sempre, abbiamo la mente occupata e meno vuoti da colmare. Una forma di aziendalismo esasperato all’ennesima potenza, insomma, che non solo ci spreme come limoni ogni giorno, seguitando ad eseguire attività di cui spesso nemmeno capiamo il senso, ma che alla lunga può portare ad uno svuotamento esistenziale, un burnout totalizzante e nullificante,  in cui a nulla conta ciò che non sia “produttività“. Tale culto della produzione, senza scomodare concetti antropologici e giusto per amor di discuterne, finisce inevitabilmente per rendere tabù inaccettabile andarsene in ferie quando e come ci pare.

Ci sentiamo, a volte (almeno per me è così) molto poco liberi, nonostante tutto – nonostante abbiamo accettato l’onore e l’onere di aprirci una partita IVA per lavorare con chi vogliamo ed in modo flessibile, finalmente. Per cui:

  • va bene non sentirsi sempre iper-produttivi.
  • Va bene annoiarsi del lavoro che si fa, almeno ogni tanto.
  • Va bene che si decida di staccare un po‘, per riprendere con più slancio in seguito.
  • Va bene non sentirsi in colpa nel farlo e nel “lasciare le cose a metà”: non per altro, ma le cose sono sempre, rigorosamente a metà, nel nostro come in altri lavori, anche in omaggio a principi noti quali il beta perpetuo.
  • Va bene amare il proprio lavoro, ma non a costo di farlo diventare una relazione tossica.
  • Va bene lavorare, ma non dovrebbe mai diventare un feticcio per compensare passioni, affetti, relazioni.

Andarsene in ferie da liberi professionisti si può, si deve, soprattutto se l’ultima volta che l’abbiamo fatto non ce la ricordiamo nemmeno più. Per “ferie” va bene anche stare a casa a oziare, fare una passeggiata, rivedere un amico che non vediamo da anni, non serve partire per località tropicali (tanto più che molti non hanno manco i soldi per andare dove sognavano).

Per cui prendiamoci la libertà di farci delle ferie come vogliamo davvero: per me significa passare del tempo a scrivere, a leggere, a sentire la musica che amo, a compiere tutte quelle attività che delego ai ritagli di tempo che l’aziendalismo troppo spesso tende ad impormi in modo inconscio. Andarcene in vacanza, che meraviglia!

Cosa che da liberi professionisti dovremmo poter fare, in effetti, quando ci pare: non lo facciamo, pero’, e – badate bene – non perchè l’ombra minacciosa del cliente ci imponga di non andarci (alla mail in cui avvisavo di andarmene beatamente in vacanza, il cliente non ha nemmeno risposto in nessuno dei due casi, ed immagino fosse silenzio-assenso), ma soltanto perchè siamo stati drogati dal senso di colpa indotto da un aziendalismo produttivista ad ogni costo, che spesso impone stipendi da fare e, si badi bene, appare ostico, immutabile, non modificabile.

Non diamogli tutto questo potere, o quantomeno proviamo a non farlo; anche se non sempre dipende da noi, ovviamente, qualcosa si può sempre fare.

Immagine di copertina: Foto di John Hain da Pixabay, Foto di MustangJoe da Pixabay

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