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Contact tracing: tracciare i contatti in funzione anti-Covid-19

Per qualche strana associazione di idee, essere contrari al contact-tracing equivale ad essere novax, a sostenere assurdità  su quella falsariga o magari essere dei boomer che si fanno spiare da Facebook e poi si lamentano per Immuni. Non ci vuole un genio per capire che i progetti di questo tipo, messi in piedi in fretta e furia ed indicati per mesi come liberazione da ogni male legato alla pandemia, finiscano per creare più problemi di quanti non ne risolvano.

Del resto nulla è mai causa veramente di tutto, e l’idea del contact tracing non è sicuramente nuova: quando anni fa l’epidemia di virus Ebola devastò le comunità  dell’Africa occidentale per ben due anni (2014-2016), gli operatori sanitari riuscirono a mettere in quarantena tutti i contagiati con annessi contatti che avevano avuto, e molti addetti ai lavori continuano a vederlo come uno degli strumenti più efficaci per contenere qualsiasi altra epidemia.

La realtà  di oggi pero’ racconta altro: quasi un anno dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità  (OMS) disse che il COVID-19 era una vera e propria pandemia, solo pochissimi paesi stanno riuscendo a fare efficacemente contact tracing. Nel mondo occidentale, in altri termini, si verifica una vera e propria diffidenza nei confronti della pratica: per intenderci, in Inghilterra una discreta parte di persone potenzialmente infette sfugge al controllo, ed il 18% di chi viene contatto non fornisce dettagli su altre persone che potrebbero aver propagato il virus. Stessa cosa negli USA, dove più della metà  di chi risulta positivo al coronavirus non fornisce alcun dettaglio utile sui contatti stretti che potrebbe aver avuto.

Le ragioni dei fallimenti sono complesse e sistemiche, e probabilmente derivano anche da un fattore (o una degenerazione, se vogliamo) di natura sociale e culturale. La tecnologia, spesso non aggiornatissima, ed i vari sistemi sanitari sotto-finanziati, si sono dimostrati sostanzialmente inadeguati a fornire una risposta. Le nazioni più ricche hanno lottato per assumere un numero sufficiente di tracciamento di contatti, gestirli in modo efficace e assicurarsi che le persone si autoisolassero quando infettate, o quantomeno si mettessero in quarantena quando un contatto ravvicinato aveva la malattia. Ma le misure di contact tracing venivano quasi sempre accolte con sfiducia e diffidenza, e questo ha anche impedito di avere sufficenti dati sulla pandemia sui quali i ricercatori potessero lavorare. Le uniche eccezioni riguardano i casi di Corea del Sud, Vietnam, Giappone e Taiwan, dove il Covid-19 è stato fermato sfruttando anche i dati GPS e delle celle del telefono per monitorare gli spostamenti delle persone (questo, per inciso, spesso implicherebbe l’uso di un quasi “malware di stato” da installare nei telefoni di quelle persone).

Non tutte queste tecniche sono trasferibili alla cieca a paesi che adesso lottano per contenere focolai di Covid, ovviamente. E soprattutto è impossibile fare un paragone tra i diversi paesi, che operano in condizioni democratiche quantomeno borderline in alcuni casi, e che pagano con molte vittime (paradosso doloroso, quanto necessario da sottolineare) il fatto di non poter usare eccessive restrizioni.

In Corea del Sud, ad esempio, le autorità  usano vere e proprio tecniche di sorveglianza dei cittadini, in modo da superare la riluttanza di cui sopra: tali tecniche prevedono un multiplo check di varie condizioni, tra cui quello imposto da una legge per contrastare l’epidemia di MERS del 2015, e che prevedeva l’analisi di transazioni sulla carta di credito, uso di telecamere a circuito chiuso e dati geografici sulle celle utilizzati dai cellulari. Le informazioni sui casi rivelati sono peraltro pubblicate online, ed “hanno funzionato molto bene” allo scopo di contenere i contagi (secondo quanto dichiarato dal Ministero dell’Economia e Finanza, all’epoca). Sulla pubblicazione dei dettagli, peraltro (cosa che in teoria un qualsiasi Garante per la privacy nostrano difficilmente consentirebbe) portava anche all’individuazione di casi fin troppo granulari e dettagli, come nel caso di un coreano accusato di avere una relazione con la cognata per il fatto che le rispettive mappe degli spostamenti mostravano che avessero cenato allo stesso ristorante.

In Vietnam il contact tracing sfrutta informazioni sulle celle del telefono cellulare e sulla geolocalizzazione su Instagram e Facebook degli utenti (e qui il presupposto è ancora più subdolo, dato che entrambi i social permettono facilmente di creare account fake). In Slovacchia la pratica della raccolta dati è stata nuovamente proibita, dopo qualche tempo che era divenuta legge. In Italia c’è l’app Immuni, ma sono montate numerose perplessità  sulla sua efficacia, per quanto il problema sia annesso alla fiducia nella tecnologia (che non si può certo imporre, per quanto si faccia in buonafede) che alla tecnologia utilizzata (il Bluetooth su cui si basa possiede un raggio d’azione diversissimo per ogni modello di smartphone, e di suo non è certamente pensato per misurare la distanza).

Stando allo scienziato Christophe Fraser, perchè il contact tracing possa rallentare la curva dei contagi (che ormai tutti sappiamo cosa sia dai TG nazionali) dovrebbe rilevare almeno il 70% dei contagiati ed un ulteriore 70% dei contatti degli stessi. Percentuali molto difficili da raggiungere, per quanto abbiamo visto, e che lasciano più di un dubbio sulla sostanziale applicabilità  della cosa – che è un po’ come effettuare un esperimento perfetto in laboratorio e poi aspettarsi che funzioni allo stesso modo anche nella realtà . Semplicemente, e purtroppo per il numero di contagi, non è cosଠche si potrà  risolvere il problema.

Il problema di fondo del contact tracing è che è un ottimo sistema in teoria ma, ad oggi, non sembra funzionare nella pratica: troppi sono i potenziali errori a cui potrebbe essere soggetta, che dipendono da fattori imprevedibili e quasi impossibili da tracciare. Dati che rischiano di creare solo confusione, allarmismo o sottovalutazione del problema (in una frase: non danno una mano, finchè non ci saranno conoscenze e protocolli più avanzati, quantomeno). Si possono verificare infatti errori in ogni fase del tracciamento contatti via app. Ad esempio: persone che prendono il COVID-19 e non lo sanno, o ritardano il test per altre ragioni. I risultati dei test che possono richiedere giorni per essere confermati; misure di auto-isolamento non rispettate. Persone poco collaborative, impossibilità  di raggiungere molti contatti, senza contare potenziali bug nelle app di tracciamento a cui qualsiasi software, come sappiamo, può essere soggetto nel proprio ciclo di vita.

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