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Tra intelligenza e coscienza: perchè le macchine non possono davvero pensare

I cellulari che usiamo ogni giorno, secondo alcuni, ci spiano: alcuni hanno osservato, ad esempio, che se parliamo di un certo argomento con un amico e poi apriamo il telefono per curiosare su Instagram, ci sono discrete possibilità  che esca fuori qualche sponsorizzata sull’argomento. Se le cose stessero davvero cosà¬, di fatto, i nostri smartphone sarebbero da buttare, e verrebbe a tutti voglia di tornare al caro vecchio Nokia 3310. Ad oggi, in ogni caso, nessuno è mai riuscito a dimostrare che gli smartphone ci spiino davvero, il che denoterebbe una certa capacità  di “decidere”  e pensare in autonomia quando sia meglio farlo. Certo, più di qualche esperto ha adombrato il sospetto che le cose possano stare cosà¬, ma la prova definitiva manca. Senza avvolgerci nella spirale complottistica secondo la quale la verità  non uscirebbe fuori comunque, il che sarebbe abbastanza paranoico in effetti, c’è da sottolineare come molti dispositivi moderni dimostrino una qualche “intelligenza” di cui fino a 10 o 15 anni prima non sembravano affatto dotati. Ma allora le macchine possono pensare? Secondo me no, o meglio non possono farlo ad oggi e credo che difficilmente potranno farlo anche nel prossimo futuro. Siccome si tratta di un’affermazione forte – me ne rendo conto – vorrei divertirmi a sviscerarla un minimo per chi fosse interessato.

Bisogna sgombrare il campo, a mio avviso, prima di tutto da una questione che potrebbe introdurre un bias cognitivo notevole: pensare che computer e umani si assomiglino, partendo dal presupposto (per me fallace, quanto di non banale argomentazione) secondo il quale il cervello umano possa considerarsi assimilabile ad un calcolatore elettronico. Is the Brain’s Mind a Computer Program?,  si era chiesto il filosofo Searle a riguardo del famoso esperimento della stanza cinese: si immagina (in una variante del classico test di Turing) che una persona che non conosce la lingua sia costretta, di fatto, a comunicare con l’esterno ricorrendo solo ad ideogrammi cinese. Tutto ciò che possiede per provare a rispondere agli input che riceve in questa lingua è un manuale di istruzioni, a cui risponde ed imparare a dare degli output di risposta senza capire effettivamente cosa stia dicendo. Il parallelismo diventa chiaro se si pensa che un computer fa esattamente questo, nello specifico nella fase di compilazione ed esecuzione di un codice macchina che legge (sintassi) ed esegue senza conoscerne realmente il significato (la semantica). Secondo Searle, la differenza tra uomo e macchina è proprio nella mancanza di semantica tra la seconda ed il primo (e verrebbe da dire da bravi fatalisti nonchè fan di Terminator, per fortuna!).

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Le applicazioni di intelligenza artificiale sono da tempo uscite dall’avanguardia “futurista” che ne caratterizzava i primi singulti, diventando parte integrante delle app che usiamo ogni giorno. Facciamo qualche esempio per tutti: se un applicativo come AutoDraw, ad esempio, è in grado di interpretare gli scarabocchi che gli sottoponiamo e trasformarli in forme compiute (disegni stilizzati) che gli somigliano o li ricordano, che cosa vuol dire? Ciò naturalmente non significa che quell’app sia in grado di “pensare”, leggere nel pensiero o essere un veggente sulle reali intenzioni dell’utente. Eppure, paradossalmente, la sensazione che ne ricaviamo spesso è esattamente quella. Spingendo oltre il discorso, ci accorgiamo che ormai esistono auto a guida autonoma che, in un certo senso, sono dotate di intelligenza: sono realtà  per molti di noi, nonostante i costi tutt’altro che abbordabili, ma esistono. Stando all’esperimento di cui sopra, queste auto non sono davvero in grado di pensare e di distinguere (ad esempio) la differenza tra scontrarsi con un muro, un animale o una persona che attraversa la strada (per quanto, probabilmente, possano essere in grado di valutare i rischi per il guidatore in ognuno dei casi sopra elencati): non pensano davvero, ma esibiscono un comportamento intelligenze (smart), e questo ovviamente non potrà  mai renderli veri e propri guidatori coscienziosi come potrebbe esserlo un uomo ben educato e con etica e semantica a corredo.

Grazie all’intelligenza artificiale siamo in grado non solo, ormai, di far eseguire compiti noiosi ad una macchina (lavorare su un foglio di calcolo in Excel, ad esempio), ma anche di delegare compiti complessi ad app che sfruttano la AI (Artificial Intelligence), che vanno dalla scelta strategica aziendale alla scelta di un partner. Suggerimenti, idee, spunti, più che vere e proprie “intelligenze”, vocabolo probabilmente usato ed abusato quanto blockchain e lo stesso smart. Sapere eseguire dei passi, pertanto, non equivale affatto al dotare l’automa che li esegue di un’intelligenza, concetto che andrebbe quantomeno staccato da quello di coscienza. Un essere pensante è cosciente, e questo avviene (senza scomodare diatribe ulteriori che finirebbero per appesantire una trattazione che voglio mantenere sul colloquiale) perchè decide (o meno!) di dotarsi di responsabilità , oltre che della capacità  di pensare e decidere. Sono sfumature apparentemente concettuali o astruse, secondo alcuni, ma restituiscono un vero significato, forse del tutto nuovo, a quello della pluri-citata intelligenza artificiale. Chissà  che cosa riserverà  in futuro per noi la AI per il prossimo futuro… forse nulla, forse (se le mie previsioni non fossero corrette) addirittura troppo.

Eppure le app continuano a scegliere potenziali partner per noi grazie alle app di dating, sembrano realmente in grado di trovare la pizzeria più vicina a casa, ci sorprendono su tantissimi altri fronti come, ad esempio, nel caso della selezione accurata delle persone che potresti conoscere su Facebook. Algoritmi evoluti, sempre più avanzati e sempre più lontani – per molti versi – dalla basilarità  del sequenziamento di codice, quella che in tanti abbiamo pazientemente appreso, nelle sue varie declinazioni, ai tempi dell’università  o dei classici corsi di programmazione. Saper programmare è un’arte che imparareremo in misura sempre più frequente e numerosa sul pianeta terra, ed andrà  corredata da una conoscenza concettuale legata all’uso ed all’abuso delle tecnologie, che potrebbe diventare utile o alienante con quasi eguale probabilità .

In fondo le macchine offrono da sempre una grande illusione, che è quella di sapere davvero qualcosa di noi, in modo secondo me simile a quella dei grandi mentalisti, che già  alla fine del secolo scorso erano in grado di far credere al proprio pubblico di avere poteri sovrannaturali, spopolando in maniera clamorosa negli anni 80 e diventando parte della cultura pop, probabilmente, con la fama crescente di illusionisti abili come Penn & Teller. Ed ogni azienda IT che propone le proprie “magie”, oggi, potrebbe essere raccontata tra 100 o 200 anni nei termini con cui sorridiamo nello scoprire i trucchi, a volte smart altre decisamente cialtroneschi, che accompagnavano gli spettacoli di magia di inizio del Novecento in tutto il mondo.

Le macchine possono pensare, certamente, nella misura in cui ci ha suggestionato per decenni l’articolo di Alan Turing a riguardo, un gigante dell’informatica mai troppo tributato oltre che al centro di un celebre equivoco a riguardo del suo famoso esperimento mentale (che qualcuno ebbe la pretesa di aver smentito, ovviamente sbagliando proprio perchè si tratta di un esperimento mentale, non di uno realistico da testare in laboratorio). La mia impressione è che attribuire intelligenza o presunta umanità  ai software moderni avvenga per lo stesso motivo per cui, anni fa, associavamo per forza di cose le fisionomie degli alieni a quelle viste in E.T., nei fumetti o in altri film di fantascienza: semplicemente, lo facevamo in automatico perchè erano le sole che conoscevamo.

Ma ad oggi ne sappiamo qualcosina in più, e non abbiamo più scuse: sintassi non è semantica, e le macchine informatiche, da sole, ad oggi possono al massimo farci credere di aver pensato le risposte che ci forniscono.

Photo by Possessed Photography on Unsplash

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