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Meta: dove sta andando il modello di business di Zuckerberg

L’ormai noto annuncio di Meta, il rebranding di Facebook Inc. orientato sulla realtà  virtuale e realtà  aumentata, difficilmente sarà  riconducibile ad un semplice cambio di nome. C’è dell’altro di mezzo, ma che cosa di preciso? Sebbene le previsioni restino incerte e molti, come Vice, si siano spinti alla previsione di scenari apocalittici in cui la previsione del comportamento umano (nonchè l’inscatolamento delle persone nei loro avatar) diventi un modello di business, la domanda “cosa sarà  davvero Meta” e “fin dove ci spingerà  il metaverso” è lecita oltre ogni misura. Tanto più che oggi, ancora adesso, possiamo fare qualcosa per cambiarlo ed eventualmente opporci ad esso, non accettando acriticamente ogni cosa che arriverà  dalle aziende: questo non tanto per mero spirito utopico o da bastian contrario, ma soprattutto in seguito all’esperienza non esaltante lato privacy che ha fatto emergere i limiti di Facebook.

Zuckerberg ha sempre strizzato l’occhio alla realtà  virtuale, e fin da tempi non sospetti: ciò che è stato visto da tutti di recente, del resto, con un mondo popolato da avatar all’interno di una realtà  aumentata, non è che il frutto di quel manifesto di intenzioni. Al netto delle suggestioni emotivi da film di fantascienza, resta da chiedersi se davvero possa diventare un modello talmente attrattivo per il pubblico, e quali limiti esso ponga alle possibilità  di interazione. Su questi strumenti, in altri termini, potrò fare qualsiasi cosa o ci saranno delle regole da community che mi impediranno, a prescindere (ed in base a fattori culturali, sociali e legali diversi per ogni nazione), di effettuare determinate azioni?

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Nel mondo in questione un utente può comprare case virtuali, arredarle virtualmente e interagire con avatar di altre persone.

A nostro avviso Meta continua ad essere Facebook, e viceversa: la paventata chiusura del social difficilmente avverrà , anche perchè il parallelismo che uno potrebbe fare con la fine di MySpace ad esempio è fuori tempo massimo, ormai. Facebook “serve” nella misura in cui tutti ce l’hanno e tutti ne fanno uso, in fondo il classico paravento in merito è sempre stato che ok, avranno pure avuto problemi con la privacy ma non scherziamo, “è comodo” da usare, è gratis e lo sarà  sempre. Il suo modello di raccolta dati personali è stato, del resto, per molti versi pioneristico, e tantissimi altri CEO grandi, piccoli e presunti tali ha provato invano ad imitarlo: come faceva un mio vecchio cliente, quasi senza budget, che era convinto che bastasse realizzare un sito in WordPress in cui caricare foto per entrare in concorrenza con lui, dando 400 € al più (dati reali, ndr) ad uno “bravo col computer“. Convinto lui…

Ora, Zuckerberg potrà  anche essere antipatico a tanti, ad esempio per via del comunemente attribuito pressappochismo con cui ha affrontato le difficoltà  aziendali di Facebook negli scorsi anni, ma resta uno che ha investito seriamente in tecnologia, quasi come Elon Musk e pochi altri al mondo. Che poi ci voglia guadagnare, in un certo senso, è anche ovvio e non dovrebbe più meravigliare nessuno, a meno che uno non rimanga ancorato alla vision di internet anni 90 in cui era tutto “gratis” (sinonimo gentile per “piratato”, a volte), la gente dava consigli gratis e lavorava gratis per te: Meta e Facebook probabilmente erediteranno solo l’ultima di queste cose, spingendo sul passaparola per la diffusione dei loro nuovi servizi. E tutto il resto, come dire, lo vedremo strada facendo. Photo by Annie Spratt on Unsplash 

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