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Film tecnologici: Hardware – Metallo letale (R. Stanley, 1990)

Disseppellito nel deserto da un misterioso Nomade, un cyborg viene portato in dono dal militare Mosè allla compagna, scultrice, Jill. L’ambientazione è in una New York post-apocalittica, devastata da una guerra nucleare e ridotta a poco più che un deserto. Il soggetto è basato sul fumetto 2000 AD, in particolare il numero dal titolo “SHOK” del 1980.

In breve. Low-budget post-apocalittico ben diretto e ben interpretato. Uno dei cult del cyberpunk, destinato ad influenzare pesantemente le generazioni successive.

Caratterizzata da una trama semplice e diretta, da un’ambientazione post-apocalittica e da pochi quanto efficaci effetti speciali, Hardware – Metallo letale è forse una delle migliori sintesi cyberpunk mai comparse su uno schermo. Proprio quel connubio tra uomo e macchina, con relativa sopraffazione della seconda sul primo, si esplica in un robot assassino, concepito segretamente per uso militare, capace di uccidere mediante una potente tossina che inietta nelle proprie vittime.

L’idea che una scultura realizzata interamente con cavi elettrici e attrezzatura metallica di recupero possa rianimarsi, riprendere vita e addirittura imparare ad auto-rigenerarsi è notevole, oltre che originale per l’epoca in cui il film è uscito. Ci troviamo al cospetto di un’ottima fantascienza-horror (con un paio di sprazzi splatter), probabilmente artigianale se vista oggi per quanto caratterizzata da pochi ed incisivi personaggi, con più di una velleità da film d’essai, per quanto esente da intellettualismi contorti o incomprensibili, con un buon ritmo e un finale sorprendente e beffardo.

È indubbiamente vero che il tema del rapporto uomo-macchina (o uomo robot, per dirla in modo più preciso) è stato riprodotto e sviluppato in lungo e in largo anche da altri film, con toni sia consonanti che dissonanti (si pensi ad esempio a Corto Circuito, dove un robot diventerà cittadino modello, oppure Robocop, dove un androide con parti umane viene adottato dalla polizia). Se in apparenza potrebbe in effetti sembrare che gli epigoni di Hardware non siano pochi, quello di Stanley (che si ispira apertamente a Dario Argento per dirigere, a suo stesso dire) rimane un unicum anni Novanta che ha influenzato moltissimo il genere, per quanto (già  un anno prima) fosse appena uscito l’allucinato Tetsuo di Tsukamoto. Gran film anche quello, del resto, quanto decisamente più criptico nel linguaggio, che in quest’opera di Stanley è più orientato al grande pubblico, nonostante le conclusioni non esattamente rassicuranti.

L’androide al centro della storia, erroneamente ritenuto un banale addetto alla manutenzione, si rivela un feroce MARK 13 da combattimento, con riferimento al Vangelo di Marco che diventa, nel contesto, una profezia significativa per il film stesso:

la terrà  tremerà  e le masse avranno fame; questi dolori vi aspettano, e nessuna carne sarà  risparmiata.

Il regista non risparmia le proprie riflessioni soprattutto nella parte conclusiva del film, in cui MARK 13 diventa metafora del potere oppressivo che manipola l’opionione pubblica e santifica l’idea di utilizzare degli automi per il controllo delle masse.

Film deliberatamente post-apocalittico, Hardware del sudafricano Richard Stanley risulta tanto esplicito nella sua poetica, nelle sue tematiche e nel suo stile da essere quasi accostabile (sebbene i mezzi fossero ristretti) al capolavoro Terminator di Cameron, sia pure come tributo all’horror puro in misura maggiore di quest’ultimo. Un film visionario e piuttoto ben realizzato, pur nella sua semplicità (con un budget di appena 1 milione e mezzo di dollari) di pura fantascienza, con aspetti che potrebbero piacere al grande pubblico e con tutti gli elementi caratteristici del genere: una terra devastata da crisi climatica e guerre, un’umanità  in ginocchio commentata dalla voce beffarda di uno speaker radiofonico, le pubblicità  TV della “carne senza radiazioni”, il vicino di casa guardone (naturalmente esperto di tecnologia) e così via.

La testa di MARK 13 è, fin da subito, simbolo di una tecnologia invasiva, solo apparentemente innocua e quasi incontrollabile, capace di prendersi gioco degli umani fino alla fine. In questo, gli echi del primo Cronenberg si fanno sentire, con relativi richiami al biologico-meccanico del settore (che è prima di ogni altra cosa, forse, genere letterario, ed in questo risiede la sua ulteriore dignità ), alla disumanizzazione della società  e ad una sessualità  a tratti umana e passionale, a tratti gelida e tecnologica (film come Videodrome, eXistenZ).

Il gioco di simboli diventa ancora più esplicito quando Jill decora il teschio con i colori della bandiera americana, con tanto di colonna sonora dei Ministry (il brano è Stigmata, ma quelli che vengono mostrati in TV sembrano spezzoni di live dei Gwar). Nello scenario dominato da oscurità  e schermi elettronici, l’unico momento di luce nitida nel film, significativamente a mio avviso, avviene durante l’intenso scontro finale, l’unico momento in cui scorgiamo MARK 13 in tutta la sua possenza tecnologica.

Un film sicuramente da vedere, e riscoprire, ancora oggi.

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