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Bias della email “urgente”: uno studio dimostra che non c’è fretta

Stress da lavoro e burn out sono tematiche estremamente sottovalutate nella società in cui viviamo. Si arriva al punto che non se ne può più di lavorare a certi ritmi (burnout), e questo ci dovrebbe spingere ad una riconsiderazione dei modi e dei tempi in cui operiamo nella nostra quotidianità.

La mentalità del “lavoro perenne”

Nei miei ricordi di universitario – ho studiato ingegneria, ma sono sempre stato poco allineato con la mentalità dominante all’epoca che era, per inciso, per lo più liberista e pragmatica – facevamo vari discorsi legati alla scelta saggia della facoltà in cui studiare.

A ripensarci oggi, sebbene non sempre impeccabili da un punto di vista grammaticale, erano discussioni bellissime: si parlava del nostro futuro, di cosa avremmo fatto una volta concluso quel periodo meraviglioso in cui, peraltro, potevi permetterti “lussi” inconcepibili in seguito (feste universitarie, mancanza quasi assoluta di orari prefissati, conoscenze in lungo e in largo, vita nel campus a 360°). Si parlava spesso di quali facoltà fossero migliori, e spesso tutto nasceva da battute giudicanti e spesso viziate da distorsioni cognitive: si partiva dal considerare più sexy chi era iscritto alla facoltà di lettere che non ad ingegneria, si finiva per dire sempre che la matematica dava più lavoro della filosofia, io stesso tendevo a disconfermare questi stereotipi perchè davvero, gli stereotipi non mi sono mai piaciuti (e una volta, non ho mai saputo chi fosse l’artefice, mi fecero anche uno scherzo telefonico abbastanza pesante, giocando sulla mia sensibilità a questi argomenti nonchè sul mio anti-autoritarismo). Vivevo nel campus Unical dove, di fatto, c’era molto tempo e modo per discutere di queste cose, e le riflessioni costruttive non sono mai mancate. Ma già allora serpeggiava una mentalità da “lavoro perenne” mentre oggi, lentamente, prende piede l’idea che uno non possa vivere solo per lavorare, e che anzi non debba farlo, pena potenziali problemi di salute non da poco.

La nostra ottica post adolescenziale era brutale, senza sfumature, al limite del gretto: la mettevamo sul piano di “filosofia è inutile, ingegneria ti fa fare i soldi senza lavorare“, e a ripensarci oggi questa mentalità non è mai morta. Ma era meglio studiare filosofia o ingegneria? Matematica o economia? Tendenzialmente si creavano due fazioni contrapposte: da un lato c’era chi sosteneva le facoltà umanistiche, che fornivano quasi tutte l’insegnamento come sbocco professionale (quasi tutte, per la verità) e che finivano per sembrare, agli occhi dei più, una sorta di artisti bohémien condannati al degrado.

Dall’altro c’era la fazione che oggi definiremmo “scientista”, che non voleva sentire parlare d’altro che di numeri e di tecnologia, che ragionava come piccoli manager già allora e guardava con una sottintesa, maligna ostilità chiunque avesse scelto facoltà non scientifiche. Si faceva appello ad una “richiesta del mercato” che sembrava aleggiare sulle nostre esistenze già allora, e che immaginava (eravamo nei primi anni duemila, pressappoco) manager indaffarati occupati a gestire conti in banca sempre più corposi, e docenti precari costretti a gestire frotte di adoloscenti infernali per due spicci. Con varie venature di tossicume, in quei discorsi, perchè poi alla fine si finiva sempre per sessualizzare la presunta segretaria o per prefigurare il cinismo di mettere firme a progetti senza leggerli (perchè tanto poi ti pagano, che ti frega).A pensarci oggi, vengono i brividi: le infrastrutture sono crollate più volte, il cinismo va per la maggiore, il sessismo domina e finisce per condizionare le scelte lavorative (tant’è che il machismo distorto che è stato “coltivato” in quegli anni guarda con sospetto anche il semplice fatto che un uomo faccia l’insegnante, o che una donna lavori nei cantieri), abbiamo bisogno di una cultura ad ampio respiro, non possiamo accettare in nessun caso di diventare mono-dimensionali. Cultura scientifica e umanistica dovrebbero far parte di uno stesso mondo, non contrapporsi: il che finisce per farle idealmente collaborare a più livelli (le applicazioni di intelligenza artificiale sono l’esempio più lampante di questa necessità). Ma è anche chiaro, a mio parere, che la mentalità sbrigativa di chi vorrebbe managerializzare il mondo è destinata a produrre effetti non sempre positivi sulla qualità delle nostre vite.

Ne faccio un discorso generazionale per puro amor di discussione, ovviamente, e non voglio dire che tutti i mali moderni vengano da quelle discussioni anni novanta: ma quei piccoli, sedicenti manager in erba già sentivano nei primi duemila quel senso di urgenza, quell’idea di doverci essere e mostrarsi operativi, efficenti, sostanziali, legati alla “pratica”, una sorta di pragmatismo che voleva la propria esistenza legata alla pratica operativa, che considerava l’ozio una perdita di tempo e che si dedicava al lavoro ad oltranza, a vita, spesso senza arte nè parte ma contava, in qualche modo, sentirsi “operativi”. Senza rendersi conto dei rischi del burnout, dell’alienazione del singolo, delle problematiche che abbiamo vissuto e viviamo ancora oggi, del rischio di creare contrapposizioni e alimentare stereotipi tossici e fuorvianti. Il bello era che abbiamo creduto quasi tutti, penso, al sogno che ci stavano vendendo, in primis le università stesse (assurdamente marchetizzate da aziende private, spesso in modo nemmeno troppo velato: ricordo ancora eventi universitari promossi da aziende private, mentre alcuni docenti promuovevano in aula l’uso di software di sviluppato di una certa azienda; anche lì, pragmatismo, visto che poi “quando vai a lavorare” userai quelli, quindi non ti serve sapere nient’altro). Per quanto mi riguarda – e per quanto abbia ricordi bellissimi legati al mio periodo universitario – non posso che mostrarmi ferocemente critico verso l’idea, alimentata a quei tempi, di instaurare una cultura del lavoro perenne già allora, considerando il periodo universitario l’ultima “oasi felice” della vita perchè poi, signora mia, si lavorarerà per il resto della propria vita 24/7, taaac.

Paranoia da e-mail

Rispondere alle email fa tipicamente parte della routine lavorativa di molti dipendenti e liberi professionisti, afferenti a diversi ambiti. Di fatto, si tende a pensare che la rapidità nel rispondere sia parte integrante del voler apparire massimamente efficenti. Se non rispondiamo subito, addirittura, finiamo per sentirci in colpa. Se facciamo lavoro da ufficio, avremo tonnellate di email a cui rispondere quasi ogni giorno, tanto che le due psicologhe sociali Laura Giurge della London Business School e Vanessa Bohns della Cornell University sono andate a misurare, su un campione di volontati, la percentuale di tempo che un dipendente medio dedica a rispondere alle email. In circa due ore al giorno, ogni dipendente risponde a circa 100 email, il che va considerato come compito doppio (non solo il tempo di scrivere, ma anche quello di leggere) ed occupa il 28% del tempo lavorativo settimanale.

Rispondere subito alle e-mail è sinonimo di efficienza?

Ancora più problematico, secondo un articolo scientifico di psicologia sociale (che si intitola significativamente Non serve che rispondi subito: chi riceve una email sovrastima le aspettative di tempo di risposta da parte del mittente),  è il numero di e-mail inviate al di fuori dell’orario di lavoro (nel fine settimana o durante le ferie). Analizzando un campione rappresentativo di circa 1500 dipendenti statunitensi è stato rilevato che la metà di loro ha risposto alle email fuori dall’orario di lavoro. Questo perchè del resto, ad oggi, tra smartworking evocato a convenienza e urgenze che spesso non sono urgenze, i limiti delle 8 ore al giorno vengono ampiamente scavalcati. Lo studio in questione sottolinea come ciò avvenga a dispetto del fatto che una email, per definizione, non richiede risposta in tempi immediati, per quanto poi la tendenza rilevata sia che la maggioranza di dipendenti risponda entro un’ora (76%), mentre circa un terzo (32%) lo farebbe addirittura entro 15 minuti. Queste statistiche suggeriscono che la posta elettronica non è solo un mezzo di comunicazione primario, ma può essere anche fonte di stress e burnout che mina la produttività e il benessere dei dipendenti. Mentre la posta elettronica crea lavoro aggiuntivo per tutti, tende a creare un volume di lavoro maggiore per i destinatari rispetto ai mittenti.

No, rispondere subito non è sinonimo di efficienza e non ha a che fare con la produttività, ma sembra più che altro frutto di una soggettività esasperata che ci fa attribuire iper-responsabilità ad oltranza, anche quando non sarebbe compito nostro. Il fenomeno viene definito dalle due ricercatrici “bias dell’email urgente” (email urgency bias) e sembra essere frutto di una distorsione cognitiva egocentrica che affligge chi riceve la posta elettronica (non chi la invia, curiosamente), e che spinge la persona a sovrastimare le aspettative del mittente. Non solo: questo bias porta ad un carico di stress ulteriore, facendogli considerare le email ricevute come più stressanti di quanto non fossero effettivamente nelle intenzioni del mittente.

Bisognerebbe combattere la diffusione di culture lavorative malsane in cui i lavoratori, in generale, si sentano spinti a restare costantemente in contatto con il proprio lavoro anche quando non è previsto che lo facciano. Ci sono varie soluzioni proponibili, e quella che viene proposta dallo studio consiste nell’esplicitare se la mail sia urgente effettivamente oppure no. Migliore comunicazione, migliore di quanto non sia legarsi alla cultura scaricabarile, al fatto di scrivere URGENTE nell’oggetto quando poi in realtà nulla è davvero urgente, tutto va organizzato e siamo stanchi, davvero, di dover fare cose che andavano fatte ieri, di sentirci in ritardo quando non lo siamo, di sentirci valorizzare una pseudo-produttività presunta che non giova a nessuno, che sembra più che altro autoreferenziale.

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